Tornano, come ogni 15 giorni le nuove avventure in musica di Sounds & Grooves, come sempre sulle onde sonore di RadioRock.to The Original.
Un piccolo omaggio a Chris Cornell ed una piccolissima (e certamente non esaustiva) carrellata di quello che è stato il grunge anni ’90. Con voi in questa ora e mezza di musica ci sono a tenervi compagnia: il rock alternativo statunitense anni ’90 di Soundgarden, Mudhoney, Temple Of The Dog, Screaming Trees, Sleep, Fugazi, Brainiac, i maestri Sonic Youth, l’elogio della malinconica lentezza dei Black Heart Procession, la fantastica psichedelia italiana degli In Zaire, l’incredibile follia di due geni come Kevin Ayers e Syd Barrett, il ricordo di Gregg Allman e della sua Allman Brothers Band ed il ventennale di OK Computer dei Radiohead. Prima di partire con questo viaggio in musica pubblicato come sempre sul sito della migliore podradio italiana www.radiorock.to, potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo parlando di un personaggio la cui recente scomparsa ha davvero avuto una vastissima eco sulla carta stampata, sulle webzines e soprattutto sui social media. Naturalmente sto parlando di Chris Cornell, che si è tolto la vita il 18 maggio dopo aver suonato con i suoi Soundgarden a Detroit. Credevo che fosse un artista ormai in fase decrescente, che il meglio della sua voce iperpompata e potente lo avesse espresso nella prima fase della sua prima band prima di annoiare (parere personale eh) con il bolso rock da stadio degli Audioslave e dei suoi deludenti lavori solisti. Ma c’ è da dire che quando ero poco più che ventenne, quella stessa voce mi aveva trascinato pur senza riuscire mai a conquistarmi del tutto. La sua identità e presenza non mi apparteneva, era troppo centrale, figo, per chi come me ha sempre amato i personaggi non illuminati a giorno dai riflettori, ma per una stagione è stato senza dubbio chi avrei voluto essere, sostituendo per un attimo i suoi demoni con i miei. “The voice of a generation, an artist for all time” c’è scritto sulla sua tomba, e mi rendo conto che è stato davvero una voce che ha segnato una generazione, quella del grunge, un genere che non ha certo proposto qualcosa di nuovo in musica, anzi, tutt’altro, ma che ha saputo in ogni caso entrare ed immedesimarsi nel disagio giovanile dell’epoca. Superunknown è stato l’apice creativo e commerciale dei Soundgarden e “Mailman” è una canzone che ancora oggi graffia senza scampo.
La scena di Seattle degli anni ’90 è stato probabilmente un momento musicale nostalgico e conservatore, una restaurazione del rock anni ’60-’70 senza avere lo spessore delle band di 25 anni prima. Una questione di gusti, certo, estremamente soggettiva. Ma capisco anche che all’epoca ci si è attaccato a quel movimento in maniera anche sproporzionata alla effettiva valenza storica. Tra i gruppi che hanno “preparato” questo movimento ci sono stati senza dubbio gli Screaming Trees di Mark Lanegan. Il loro amore per le band degli anni ’60, la profumata mistura di psichedelia, folk e hard rock condotta da Mark Lanegan forse non ha prodotto i risultati sperati in termini commerciali ma è sempre stata estremamente piacevole e direi sopra la media qualitativa. Sweet Oblivion esce nel 1992 ed è il primo album che vede Barrett Martin al posto di Mark Pickerel alla batteria. “Nearly Lost You” è uno dei pezzi trainanti del disco con quel ritmo incalzante alla Cream. La carriera solista di Lanegan raccoglierà in termini di pubblico e critica molto più rispetto alla sua prima band.
I Temple of The Dog furono fondati nel 1990 a Seattle proprio da Chris Cornell, per commemorare il suo amico fraterno Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone scomparso nel marzo 1990 per un’overdose di eroina. Il nome del gruppo ha avuto origine proprio dal testo di una canzone dei Mother Love Bone scritta da Wood, “Man of Golden Words”. Cornell scrisse due canzoni, e contattò due degli ex componenti dei Mother Love Bone, Stone Gossard e Jeff Ament (in quel momento con i Pearl Jam), con l’intenzione di registrare le canzoni per realizzare un singolo. Il gruppo fu completato dal batterista dei Soundgarden (ed attuale drummer dei Pearl Jam), Matt Cameron, e dal futuro chitarrista dei Pearl Jam, Mike McCready. Le prove in studio furono così sentite da portare alla pubblicazione di un album in luogo del preventivato singolo. Al gruppo si unì anche Eddie Vedder, appena diventato il cantante dei Pearl Jam, che partecipò nel pezzo “Hunger Strike” in duetto con Cornell e l’album fu pubblicato il 16 aprile 1991. Il successo non fu immediato, ma paradossalmente arrivò un anno dopo, spinto dall’incredibile boom provocato proprio dall’uscita di Ten dei Pearl Jam. “Say Hello 2 Heaven” è una delle due canzoni scritte da Cornell prima di creare il gruppo, una traccia dove la sua voce mi emoziona di più proprio perché il cantante è riuscito a mettere il suo ego a disposizione del ricordo di un amico, senza l’obbligo di strabordare.
Pochi giorni fa ci ha lasciato un altro grande musicista. Gregg Allman ha lottato con l’abuso di alcool e droghe per quasi tutta la vita, una volta in un’intervista ha dichiarato di essere entrato in un istituto di riabilitazione per ben 17 volte, ma il suo cuore ha ceduto a 69 anni. Gregg è stato il tastierista e fondatore degli Allman Brothers Band alla fine degli anni ’60, un gruppo che inaugurava la stagione del grande rock sudista. Considerati i padri del southern rock, la band riusciva a fondere il rock con elementi jazz, blues e country, raggiungendo un successo enorme con il loro album live del 1971 At Fillmore East. Ma il destino non è mai stato amico della band, appena tre mesi dopo la pubblicazione dell’album Duane morì in un incidente motociclistico ad appena 24 anni. Appena un anno dopo, l’11 novembre 1972, a soli tre isolati di distanza dal luogo dell’incidente di Duane, Berry Oakley, il bassista della band, morì a 24 anni anche lui per un incidente motociclistico. Dopo la morte del fratello, Gregg continuò con altri musicisti sotto il nome di Allman Brothers Band sciogliendo il gruppo nel 1976. Ci furono diverse riunioni, l’ultimo concerto a nome Allman Brothers Band fu nel 2014. La versione allungata live di “Whipping Post” registrata proprio al Fillmore East è un piccolo grande capolavoro.
Come ho già scritto in un’altra sede, la cosa che mi ha dato più fastidio di tutto quello che è stato scritto dopo la morte di Chris Cornell, sono stati certi articoli di pseudogiornalisti su alcune webzines: la ricerca della frase ad effetto a tutti i costi, come ad esempio sul presunto doppio senso dell’ultima frase detta dal cantante al pubblico di Detroit prima di rientrare in camerino (“Mi dispiace per la prossima città”), addirittura i titoli di canzoni uscite 25 anni prima (senza nemmeno prendersi la briga di andarne a capire davvero il significato), e soprattutto di insistere sulla presunta “maledizione del grunge” andando a infilare nel calderone solo band che hanno avuto decessi illustri (come gli Stone Temple Pilots che con il grunge non c’entravano nulla), ed escludendo veri gruppi capostipiti della scena come Mudhoney, Tad, Posies, colpevoli solo di non avere morti tra le loro fila. Proprio i Mudhoney di Mark Arm sono stati tra i primi a Seattle a proporre quel suono incendiario che poi (con varie mutazioni) si è sviluppato negli anni ’90. Quella carica alla Stooges filtrata attraverso le esperienze del punk e dell’hard rock, esordendo per l’etichetta principe del movimento, quella Sub Pop che perderà presto i Soundgarden ma guadagnerà i Nirvana. Il loro album autointitolato è stato il primo sulla lunga distanza e la tensione nervosa di “Here Comes Sickness” si scioglie in un finale apocalittico. Tra l’altro la band è l’unica superstite di quel genere in attività ad alti livelli, sui Pearl Jam preferisco stendere un velo pietoso.
Il cantante e bassista Al Cisneros insieme a Chris Hakius (batteria), e Matt Pike (chitarra) forma a San Jose (California) nel 1990 gli Sleep, abbandonando il punk della sua vecchia band Asbestosdeath e abbandonandosi ai riff sabbathiani e ad una pesante cadenza lisergica che diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica. Il loro secondo album, Sleep’s Holy Mountain è una vera e propria pietra miliare di un genere che dal doom-metal si trasforma lentamente ma inesorabilmente in stoner-rock. “Aquarian” dimostra lo stato di grazia di una band all’apice della loro forza creativa. La band si è sciolta nel 1995 riformandosi nel 2009. Oggi sono ancora attivi, ma con alla batteria Jason Roeder dei Neurosis. Nel 2003 Cisneros e Hakius decisero di formare una loro band, chiamandola OM, un duo dedito ad una sorta di lento rituale doom con precisi riferimenti religiosi.
Strano pensare che i Fugazi, nonostante siano riconosciuti come una della band fondamentali dell’hardcore americano, rimangano davvero pressoché sconosciuti al grande pubblico. Eppure il loro leader Ian McKaye è una delle menti più lucide del rock americano, fondatore anche dei seminali Minor Threat e fondatore dell’etichetta indipendente Dischord. La sua strada, che percorre con determinazione e grande coerenza, è quella di un’intellettualizzazione dell’hardcore che diventa più intimo, sia pur lacerato da tensioni mostruose. Il terzo album della band si intitola In On The Kill Taker ed è un assalto all’arma bianca, un disco dove la loro straripante energia viene incanalata in composizioni memorabili come “Smallpox Champion”. La band, che ha fatto dell’integrità il proprio marchio di fabbrica, è ufficialmente in pausa dal 2002, dopo l’uscita del loro ultimo album in studio The Argument (2001).
Pochi altri gruppi sono stati influenti su varie generazioni di rock americano e non solo come i Sonic Youth. Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley, pur partendo dall’avanguardia newyorchese, non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto la chitarra usata in modo totale grazie ad un grande uso di effettistica e con accordature inusuali), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale. Il doppio Daydream Nation è un capolavoro del loro modo inconfondibile di fare musica, con le parti soliste e ritmiche che si uniscono in un unico flusso sghembo ma perfettamente lucido. Lee Ranaldo e Thurston Moore seviziano le loro chitarre su una base percussiva ossessiva che trova il suo climax nella suite finale chiamata “Trilogy”. Ma anche nel loro modo sghembo e unico di concepire il rock, riescono come per incanto a far fluire ritornelli melodici e quasi pop, come nella splendida “Candle”.
I Brainiac sono stati una band fuori dagli schemi e dall’immenso potenziale che sfortunatamente non ha mai fatto in tempo ad esplodere in tutto il suo goliardico genio. Come troppo spesso accade, è stata una tragedia a porre fine alla loro storia nel momento in cui stavano raccogliendo i frutti di un duro lavoro e diventare una stella del firmamento musicale. Dopo aver limato il loro suono nei primi due lavori facendo viaggiare i brani con un’alternanza di pause e accelerazioni ricca di pathos e di tensione emotiva, la firma con la prestigiosa Touch And Go aveva dato finalmente alla band di Dayton, Ohio, la visibilità che meritava. La struttura delle canzoni di ‘Hissing Prigs in Static Couture’ è sempre più isterica e psicotica, le tracce sembrano respirare e contorcersi vivendo di vita propria, abbandonando quasi completamente la tradizionale struttura almeno per una buona metà dell’album. Lo stridulo falsetto di Tim Taylor sbraita raddoppiandosi, le nevrotiche linee di synth lanciano la chitarra in orbita, il basso pulsa vigoroso. Il disco ha uno dei suoi vertici nei vorticosi cambi di ritmo di “This Little Piggy”, dove Taylor da il meglio di se in una veemente interpretazione, degna di un album fondamentale per ogni fan dell’Indie Rock anni ’90 che si rispetti. Purtroppo il loro quarto album non vedrà mai la luce. La notte del 23 maggio 1997 Tim Taylor perde la vita in un incidente automobilistico mentre stava tornando a casa dallo studio di registrazione. I Brainiac si sciolgono con effetto immediato. Auto-ironici, stravaganti, geniali. Chissà cosa sarebbe successo se la loro storia non si fosse così drammaticamente interrotta.
I The Black Heart Procession nascono nel 1997 come progetto parallelo di due membri dei Three Mile Pilot, il cantante Pall Jenkins ed il tastierista Tobias Nathaniel. L’anno seguente con l’aggiunta di Mario Rubalcaba alla batteria si consolidano come gruppo vero e proprio. Prendendo forma da una sorta di decadente e scuro folk-blues, la band crea un suono quasi da marcia funebre, andando con il secondo album intitolato semplicemente 2 alla scoperta dell’animo umano. Un umore depresso che viene interrotto solo in pochi e selezionati momenti, ma che grazie ad una ispirata scrittura sforna piccoli capolavori lo-fi come la lunga processione di “A Light So Dim” che si trascina per sette minuti tra rintocchi di pianoforte e piccoli suoni elettronici, in uno scuro rituale che ricorda il Nick Cave più ispirato.
Nel 2013 Claudio Rocchetti, Stefano Pilia, Ricky Biondetti e Alessandro De Zan ci avevano piacevolmente sconvolto con un album fantastico uscito a nome In Zaire ed intitolato White Sun Black Sun prima di immergersi di nuovo nei loro mille progetti diversi. Claudio Rocchetti e Stefano Pilia hanno fatto parte degli indimenticati 3/4HadBeenEliminated per poi passare nel caso di Rocchetti principalmente alla carriera solista tra ambient e noise, mentre Pilia, da annoverare senza dubbio tra i migliori chitarristi italiani, fa parte della nuova formazione degli Afterhours, ha formato un trio con Andrea Belfi e il grande Mike Watt chiamato Il Sogno del Marinaio, ed è entrato in pianta stabile ad arricchire anche la formazione dei Massimo Volume. Non bastasse lo scorso anno ha pubblicato un album solista, Blind Sun New Century Christology, pubblicato dalla Sound of Cobra, etichetta fondata proprio dal batterista degli In Zaire, Ricky Biondetti. Il nuovo Visions of the Age to Come è un altro disco enorme, che mostra un’evoluzione stilistica rispetto al disco precedente. Ci sono cose nuove, stili e generi diversi. La band si è avvicinata di più alla forma canzone senza per questo rinunciare alla loro grande voglia di sperimentare. La voce ha una sua parte importante anche se non centrale, e i quattro hanno un modo unico di presentare la loro personale forma di rock psichedelico mescolato al kraut-rock, al metal, alla musica nera africana e addirittura alla new wave come si può leggere tra le righe della splendida “Revelations”. Senza dubbio una delle migliori band italiane in senso assoluto.
Cambiamo atmosfere, andiamo a trovare un personaggio tanto schivo e pigro per sua stessa ammissione quanto geniale e centrale per una delle scene più importanti degli anni ’70: la psichedelia britannica e la scena di Canterbury. Kevin Ayers è stato il bassista di una formazione centrale del movimento come i Soft Machine, prima di lasciare la band dopo una lunga tournee americana a supporto della Jimi Hendrix Experience. Stressato dalla vita on the road si trasferì insieme a quell’altro pazzoide di Daevid Allen ad Ibiza. Sull’isola compose una serie di canzoni che conquistarono il produttore Peter Jenner, insieme al quale registrò il suo primo album da solista, Joy of a Toy, uno dei primi della neonata etichetta Harvest Records (sezione progressive della EMI), la stessa dei Pink Floyd. Il titolo dell’album si riferisce sia ad un brano del primo album dei Soft Machine che alla sua gioia nel giocare con gli strumenti, i brani sono pervasi da una giocosità infantile appena velata da un’adulta malinconia, un disco complesso in bilico tra psichedelia, folk, allegorie e sperimentazioni. “Song For Insane Times” vede suonare insieme ad Ayers i Soft Machine al completo, con una melodia tra jazz e canterbury esplicitata in tempi dispari con un gran finale dell’organo di Mike Ratledge.
Dopo Kevin Ayers mi sembrava giusto continuare con un altra mente tanto creativa quanto instabile, un personaggio molto conosciuto perché è stata la prima mente creativa di una delle band più famose del pianeta. Syd Barrett era l’anima dei primi Pink Floyd, quelli legati alla prima psichedelia britannica, quelli che amavano giocare e sperimentare facendo incredibili viaggi nella mente tra droghe e allucinazioni. Barrett riuscì a creare un mondo di enorme fascino ma prima di venire risucchiato dalle sue stesse visioni e dipendenze che lo fecero abbandonare la band per ritirarsi ad un progressivo totale isolamento fino alla morte avvenuta nel 2006, il suo genio riuscì a tirare fuori due splendidi album solisti. The Madcap Laughs è il primo, prodotto da Gilmour e Waters e registrato con l’ausilio di musicisti dei Floyd e dei Soft Machine. Il disco contiene una tavolozza di colori molto ampia, dalla ballata folk in punta di chitarra ad una meraviglia come “No Good Trying”, con uno splendido organo ed uno strato di percussioni anarchiche su cui Barrett vola con la sua enorme fantasia.
E chiudiamo il podcast con una band che festeggia quest’anno il ventennale dall’uscita di uno dei suoi album più riusciti. Sicuramente nel 1997 OK Computer è stata la svolta per i Radiohead, band che dopo Pablo Honey e The Bends era considerata quasi l’ennesima band di brit-pop. E’ stato il primo album prodotto da Nigel Godrich, che da allora è stato considerato dal gruppo come un “sesto membro”. Non nascondo che da parecchi anni a questa parte la band mi sembra essere in una fase di terribile stallo compositivo, il fastidio che mi procurano è direttamente proporzionale all’hype che gli gira intorno, questo alone di “santità” che gli fa avere fans al limite del fanatismo che esultano anche alle tristi strategie social (la cancellazione di ogni informazione presente sulle pagine ufficiali del gruppo nei più famosi social network e il sito ufficiale diventato interamente bianco) precedenti al lancio dell’ultimo A Moon Shaped Pool. Tanto mi erano piaciuti per il coraggio di sperimentare in Kid A e Amnesiac, quanto successivamente mi sono sembrati a corto di idee, capaci solo di girare a vuoto su loro stessi. Non vado all’estremo opposto pensando che siano il gruppo più sopravvalutato sulla terra, e credo che Ok Computer sia l’album che mostra il gruppo dell’Oxfordshire al massimo della forma, come dimostra la splendida “The Tourist” che chiude sia l’album che il podcast.
E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 16 giugno andremo a tirare fuori dall’oblio le storie degli MX-80 Sound, a riascoltare un capolavoro come Spiderland degli Slint e molte altre storie. Intanto potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SOUNDGARDEN: Mailman da ‘Superunknown’ (A&M Records – 1994)
02. SCREAMING TREES: Nearly Lost You da ‘Sweet Oblivion’ (Epic – 1992)
03. TEMPLE OF THE DOG: Say Hello 2 Heaven da ‘Temple Of The Dog’ (A&M Records – 1991)
04. THE ALLMAN BROTHERS BAND: Whipping Post da ‘The Allman Brothers Band At Fillmore East’ (Capricorn Records – 1971)
05. MUDHONEY: Here Comes Sickness da ‘Mudhoney’ (Sub Pop – 1989)
06. SLEEP: Aquarian da ‘Sleep’s Holy Mountain’ (Earache Records – 1992)
07. FUGAZI: Smallpox Champion da ‘In On The Kill Taker’ (Dischord Records – 1993)
08. SONIC YOUTH: Candle da ‘Daydream Nation’ (Blast First – 1988)
09. BRAINIAC: This Little Piggy da ‘Hissing Prigs In Static Couture’ (Touch And Go – 1996)
10. THE BLACK HEART PROCESSION: A Light So Dim da ‘2’ (Touch And Go – 1999)
11. IN ZAIRE: Revelations da ‘Visions Of The Age To Come’ (Sound Of Cobra – 2017)
12. KEVIN AYERS: Song For Insane Times da ‘Joy Of A Toy’ (Harvest – 1969)
13. SYD BARRETT: No Good Trying da ‘The Madcap Laughs’ (Harvest – 1970)
14. RADIOHEAD: The Tourist da ‘OK Computer’ (Parlophone – 1997)