Tutti noi prima o poi dobbiamo fare i conti con i nostri demoni personali. Non ho mai nascosto il mio approccio faticoso con la fase del post-punk che è confluita nella new wave, e ancor di più la deriva verso una fase dark che difficilmente è riuscita a fare breccia nel mio personale nirvana.
I The Black Veils tornano a due anni di distanza dall’uscita di Blossom con un album intitolato Dealing With Demons, prodotto da Gianluca Lo Presti (collaboratore tra gli altri di Blaine L. Reininger dei Tuxedomoon) e pubblicato dalla bolognese Atmosphere Records, etichetta specializzata in post-punk e dark-wave.
Sono proprio queste le coordinate cui fanno riferimento Gregor Samsa alla voce, Mario D’Anelli alla chitarra e drum machine e Filippo Scalzo al basso negli undici brani di cui è composto questo nuovo e più maturo lavoro. La tavolozza rispetto all’esordio diventa più ricca, il suono si espande verso altri lidi e contaminazioni assecondando i propri istinti e cercando la melodia anche attraverso i paletti da loro stessi creati e formati da pulsioni graffianti, trame oscure e muri shoegaze. L’album è un “concept sulla necessità di affrontare i demoni che si annidano nel cuore e nella mente degli esseri umani e che spesso ne prendono pericolosamente il controllo”.
L’impatto con l’apertura di “The Persistence of Memory”, non è di quelli memorabili, il brano scorre veloce su binari energici abbastanza consueti di un genere che sembra aver esaurito i propri argomenti. Le cose vanno molto meglio con il progressivo rallentare delle pulsazioni, così prima “Nothing is Pure” colpisce con un bel basso alla Cure che fa capolino nel finale, poi “The Ghost Inside” con il suo incedere itrigante grazie al basso che pulsa corposo, e alla voce di Grégor Samsa che sembra acquistare personalità e spessore di brano in brano. E se “Reptile (Chant for Cold-Blooded Creatures)” e “Freyja” si avvicinano al romanticismo introspettivo alla Smiths, “True Beauty Attacks!” si rivela come una delle tracce meglio riuscite tra Levitation e i Cure con la chitarra a cesellare su un bel tappeto sintetico. Si prende fiato con la lenta e ben congegnata ballata “Prinsengracht” che ricorda i primissimi Editors, per poi rincorrere a perdifiato il basso ossessivo di Filippo Scalzo in “The Comforting Taste of Another Springtime Torture”. C’è ancora spazio per i cambi di marcia della title track e per le azzeccate traiettorie parallele di basso e chitarra di “The Wicker Man”. Si chiude davvero in bellezza con i drammatici rintocchi di piano che interrompono momentaneamente le ondate sferzanti della conclusiva “The Disintegration of the Persistence of Memory”.
Se alle volte l’urgenza creativa della band sembra sfociare in una replica di alcuni cliché del genere, fortunatamente più spesso è capace di mostrare la personalità di un gruppo alla costante esplorazione del suono. Se continueranno a sperimentare e a “sporcarsi” potranno davvero togliersi enormi soddisfazioni. L’evoluzione del suono dei tre bolognesi d’adozione, insieme ai testi che vanno in profondità tra le mille contraddizioni dell’animo umano in bilico tra ricerca di comprensione e incomunicabilità, piacerà sicuramente a chi ha sempre amato un genere che non smette di affascinare.