C’è una linea sottile capace di unire una band di Cleveland fondamentale nel tracciare le linee del punk ad un artista che da 18 anni si è rinchiuso nel suo mondo e nel suo silenzio dopo aver contribuito ad una delle più belle mutazioni della storia della musica. C’è una linea sottile che parte da David Thomas e dai suoi riformati Rocket From The Tombs per arrivare a Mark Hollis e al suo unico disco solista, una linea sottile che si svolge per 1 ora e 24 minuti lasciando per terra le sillabe violente sputate dagli Sleaford Mods, i colpi squassanti e sempre a segno dei Morkobot, la tradizione dei Byrds e del novello premio Nobel (se mai lo ritirerà) Bob Dylan, la nuova cinematic space music dei Calibro 35, e la voce di Paul Buchanan che senza pietà ma con dolcezza mette a nudo anima e cuore.
Sempre strano come musiche così diverse possano trovare la stessa strada per depositarsi in fondo all’anima. Ma questo è il bello e la forza dirompente di un viaggio verso dimensioni altre, un viaggio che inizia con la voce di David Thomas, folle, paranoico e schizofrenico cantore dell’alienazione industriale con i Pere Ubu. Thomas ha riformato una della band cardine per la deflagrazione del punk, i Rocket From The Tombs, che dirige da par suo sotto la falsa identità di Crocus Behemoth. “Black Record” ha sorpreso per la ritrovata energia del gruppo che oltre a registrare la versione (finalmente) definitiva dell’inno proto-punk “Sonic Reducer” ha registrato anche pezzi più cadenzati ma pieni di tensione nervosa come “Spooky”. Sulla forza rabbiosa degli Sleaford Mods già mi sono espresso più di una volta, il loro esordio per la storica etichetta britannica Rough Trade è l’ennesimo centro. L’EP intitolato “T.C.R.” precede di poco l’album “Live at SO36”, registrato al SO36 di Berlino il 19 giugno 2015. Il duo punk-hop di Nottingham formato da Jason Williamson e Andrew Fearn non sbaglia un colpo e anche il nuovo EP è un concentrato di invettive feroci condite da una base musicale sempre all’altezza della situazione come dimostra “Britain Thirst”.
Sui Velvet Underground e sulla loro influenza enorme su generazioni intere di gruppi rock sono stati usati fiumi di inchiostro e non credo ci sia nulla da aggiungere. Lo scorso anno è stato pubblicato uno splendido documento live registrato durante due delle molte serate che la band fece al The Matrix di San Francisco, club di proprietà di Marty Balin, uno dei fondatori dei Jefferson Airplane. La lineup della band vedeva Doug Yule al basso e organo in luogo di John Cale e durante le due serate la band presentò brani mai registrati come “Over You” o “Sweet Bonnie Brown”, brani come “I’m Waiting for the Man” con il testo cambiato o allungato, o brani stravolti e allungati in maniera torrenziale come “Sister Ray” (che addirittura sfiora i 37 minuti) o la “White Light/White Heat” (che potete ascoltare nel podcast) che passa dai due minuti e mezzo della versione in studio ai quasi nove minuti della versione registrata il 27 novembre 1969. Un gruppo di pazzi ha avuto l’ardita idea di replicare nella sua interezza il secondo album dei VU “White Light/White Heat” virandolo in una clamorosa versione da swing big band proveniente direttamente dall’inferno… Questo gruppo di demoni chiamato per l’occasione Puttin On The Ritz è formato da musicisti che navigano a vista nel mondo eclettico dell’avantqualchecosa (sia esso rock o jazz), come il tentacolare batterista Kevin Shea (Talibam!, People, Storm & Stress, Mostly Other People Do The Killing), il bassista Moppa Elliott (capo della label Hot Cup e leader dei già citati Mostly Other People Do The Killing e di mille altri progetti), il tastierista Matt Mottel (sodale di Shea nei Talibam!), e una vera brass band con Jon Irabagon al sax, Sam Kulik al trombone, e Nate Wooley alla tromba. Nella loro follia parossistica e ubriaca la band ripercorre passo passo l’epopea newyorkese dei VU rispettando anche il minutaggio del capolavoro originale, ma allo stesso tempo destrutturandolo in maniera tanto folle quanto incredibilmente convincente ed eccitante. Ascoltate la loro versione della title track per credere.
Nel 2001 un gruppo di Reggio Emilia trovava le coordinate giuste per colpire al cuore della scena indipendente italiana con un album quasi interamente strumentale che era caratterizzato dalla voglia di guardare ben oltre i confini nazionali. I Giardini di Mirò hanno creato con “Rise and Fall of Academic Drifting” uno scenario immaginifico di rara bellezza tra post rock, dream pop, post punk ed una personale visione psichedelica. L’album, appena ristampato in vinile per il suo quindicesimo anniversario, viene riproposto anche dal vivo nella sua interezza in un tour che ha appena toccato nove città italiane. L’esperienza accumulata negli anni, unita all’evoluzione che ha accompagnato e scandito il loro percorso disco dopo disco e che li ha portati a esplorare territori sempre diversi, fa sì che i brani di “Rise and Fall…” eseguiti ora acquistino una luce nuova, diversa, come la “A New Start” che apre l’album. Restando in Italia, come non segnalare lo splendido quinto album dei Morkobot di Lodi, un album intitolato “Gorgo” (recensione), il cui ritmo inesorabile scandito dai due bassi che duellano e si sovrappongono creando un denso e scuro substrato su cui si appoggia un drumming incessante e fantasioso, ci inghiotte senza scampo. Il trio sa essere iconoclasta come i Lightning Bolt e matematico come i Don Caballero, psichedelico nella loro libera attitudine di spaziare creando incastri ritmici sempre nuovi. Basta ascoltare quel mostro dalle enormi fattezze e dall’incedere inarrestabile chiamato “Ogrog”, capace di distruggere tutto quello che trova sul suo cammino, grazie ai colpi apparentemente scomposti e ingovernabili ma sempre a segno di Jacopo LON Pierazzuoli.
Torniamo indietro nel tempo, con alcune pagine vecchie ma per niente ingiallite dal trascorrere degli anni. The Byrds sono stati un gruppo di enorme importanza storica, diventato famoso nel 1965 grazie alla rilettura di “Mr. Tambourine Man” di Bob Dylan, cover che gli valse la prima posizione nelle charts americane. “Younger Than Yesterday” è il quarto album in studio della band capitanata da Roger McGuinn e David Crosby (all’ultima apparizione con la band), un album che vede sempre più innesti psichedelici come era il trend musicale del periodo, ma anche riferimenti a varie tradizioni jazz e orientaleggianti. Pur se il disco è un capolavoro e tende ad uscire dalla tradizione Dylaniana, non poteva mancare un esplicito riferimento al maestro del Greenwich Village, ed ecco che i nostri registrano una splendida versione di “My Back Pages”, originariamente inserita in “Another Side of Bob Dylan” del 1964. Bob Dylan che è nell’occhio del ciclone per essere stato insignito del Nobel per la letteratura, scatenando un’onda lunga di polemiche da parte di alcuni “intellettuali” che non sono stati in grado di comprendere lo spessore letterario di Dylan, e di comprendere che anche i testi delle canzoni possano, in alcuni casi, essere letteratura. Dylan non è un songwriter qualunque, Dylan ha inciso in maniera determinante sulla storia della musica moderna, ha ridefinito e ridisegnato da capo il ruolo di cantautore, ha scritto un’infinità di brani immortali come questa “Ballad Of A Thin Man” che parla di un fantomatico “Mr. Jones”, che entra in una stanza piena zeppa di tipi strani e alternativi e “non capisce cosa stia succedendo”. L’identità di Mr. Jones è stata a lungo oggetto di supposizioni e discussioni varie nel mondo del rock, l’ipotesi più accreditata è che si possa trattare di un giornalista vista la prima strofa della canzone che recita, “You walk into the room, with your pencil in your hand”.
The Walkabouts sono nati a Seattle negli anni 80 dall’incontro di Chris Eckman e Carla Torgerson, trovando una loro propria dimensione attingendo dalla musica country e folk e rivestendola con ricchi arrangiamenti. La band ha raggiunto la vetta artistica con gli ultimi due album usciti per la Sub Pop, “New West Motel” e la raccolta di cover “Satisfied Mind” entrambi usciti nel 1993. Il successivo passaggio alla Virgin non è stato indolore, “Devil’s Road” rimane un disco scialbo e piatto, ma nonostante questo il gruppo ha ottenuto un seguito crescente in Europa. Il seguente “Nighttown” invece è un suggestivo e cinematico viaggio notturno, scandito dall’alternarsi delle voci di Eckman e della Togerson in un maesltrom emozionale, come in “Tremble (Goes The Night)”.
The Mystery Lights sono stati la prima band ad essere messa sotto contratto dalla Wick Records, la sussidiaria rock della Daptone Records, etichetta che ha saputo dare una scarica di elettricità riaccendendo l’interesse per un genere, il soul, che sembrava ormai agonizzare. Il suono della band capitanata da Mike Brandon fa venire inevitabilmente in mente quei gruppi degli anni ’60 e ’70 che hanno saputo unire l’istintività garage alla dilatazione psichedelica, il tutto condito dalla calda registrazione analogica della House of Soul “Daptoniana”. “Too Tough To Bear” è una ballata che conquista definitivamente grazie al canto appassionato di Brandon e all’onestà intellettuale di un gruppo che sa come citare gli espliciti riferimenti senza essere mai derivativo (recensione).
The Blue Nile sono nati a Glasgow, trasferendo in musica la malinconia della città industriale scozzese. La voce e la chitarra di Paul Buchanan. il basso di Robert Bell, e le tastiere di Paul Joseph Moore hanno saputo creare una sorta di pop alternativo di enorme classe e suggestione sin dall’esordio di “A Walk Across The Rooftops”. Band non certo prolifica, pubblicherà il secondo album “Hats” solo cinque anni più tardi, nel 1989, confermando le meraviglie dell’esordio. Un suono levigato e alla continua ricerca dalla perfezione, ma certamente non asettico, anzi, le sette tracce di cui è composto l’album sono un viaggio notturno e cinematico di grande emozione e sentimento, con la voce di Buchanan che con dolcezza ma senza pietà mette a nudo cuori ed anime come nella meravigliosa “The Downtown Lights”.
Non contenti di aver deliziato i nostri padiglioni auricolari per anni con le loro scorribande sonore tra noir e polizieschi anni 70, i Calibro 35 hanno deciso di dare una svolta cosmica ambientando il loro ultimo disco in un film di fantascienza analogico ai confini della realtà… L’album “S.P.A.C.E.” è stato portato con successo in tour dalla premiata ditta Gabrielli/Martellotta/Rondanini/Cavina con il loro turbinio cinematico funk/jazz/rock. Onestamente tra i gruppi più divertenti che mi sia capitato di vedere live. Le frequenze suonate durante due serate al Biko di Milano sono finite in un album intitolato “CLBR35 Live From S.P.A.C.E.”, mixato dal fresco vincitore del Grammy (per la produzione di “Drones” dei Muse) Tommaso Colliva al Toomi Lab Studio di Londra. Ad accompagnare il quartetto per l’occasione c’erano i fiati di Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone), ovvero gli Ottone Pesante. “An Asteroid Called Death” è l’ennesima dimostrazione dell’abilità dei quattro nel creare trascinanti cortometraggi e l’occasione, per chi non ha mai avuto la fortuna di vederli on stage, di apprezzarne l’enorme potenziale live. Enrico Gabrielli, splendido polistrumentista, sta anche accompagnando insieme all’altro orgoglio italico Alessandro “Asso” Stefana, P.J. Harvey nel suo attuale (splendido) Tour che ha toccato la nostra penisola recentemente.
Mark Hollis alla guida dei Talk Talk è stato protagonista di un’incredibile parabola artistica, una vera e propria mutazione genetica che ha trasformato la sua creatura da crisalide a meravigliosa farfalla. Partito da spartiti che lo vedevano accomunato alla corrente synth-pop, il gruppo progressivamente andò a dilatare le proprie composizioni contaminando il suono con innesti sperimentali e quasi jazz, finendo con l’essere precursore del nascente post-rock. Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1992, Hollis ha inciso il suo personale canto del cigno sei anni più tardi, un album solista che riprendeva le atmosfere sognanti e appese al cielo di “Laughing Stock”, in un afflato crepuscolare, intimo. Un ultimo battito in levare, l’impeto accennato di “Watershed” che poi si ritrae, disinnescando l’energia timidamente quasi a disagio per l’aver mostrato una tale tavolozza di colori, per poi tornare al bianco e nero, e al silenzio. Il silenzio di Mark Hollis, che dura da quel 1998, ma che è bello interrompere ogni tanto.
Il podcast si chiude con un musicista che ormai è di casa nella nostra penisola. L’ex Bad Seed australiano Hugo Race, menestrello che affonda le sue radici nelle tradizioni più sanguigne del rock. L’album da cui ho estratto la “The Serpent Egg” che chiude il podcast si chiama “Fatalists”, il cui titolo che ha dato origine alla band che tuttora lo accompagna in studio e on stage, collettivo al quale appartengono Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli dei Sacri Cuori, musicisti che hanno a fattor comune l’amore per la riscoperta della tradizione e le suggestioni cinematografiche. Vi lascio con questo folk-rock in bianco e nero, un mood notturno e avvolgente che vi da appuntamento tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare.
non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast basta cliccare su questo link o sul banner qui sotto per scaricarlo da Podomatic. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. ROCKET FROM THE TOMBS: Spooky da Black Record (2015 – Fire Records)
02. SLEAFORD MODS: Britain Thirst da T.C.R. (2016 – Rough Trade)
03. THE VELVET UNDERGROUND: White Light/White Heat (Version 2) da The Complete Matrix Tapes (2015 – Universal Music) – Recorded Live Nov 27, 1969 – The Matrix – San Francisco
04. PUTTIN ON THE RITZ: White Light/White Heat da White Light/White Heat (2010 – Hot Cup Records)
05. GIARDINI DI MIRÒ: A New Start (For Swinging Shoes) da Rise And Fall Of Academic Drifting (2001 – Homesleep)
06. MORKOBOT: Ogrog da Gorgo (2016 – Supernatural Cat)
07. THE BYRDS: My Back Pages da Younger Than Yesterday (1967 – Columbia)
08. BOB DYLAN: Ballad Of A Thin Man da Highway 61 Revisited (1965 – Columbia)
09. THE WALKABOUTS: Tremble (Goes The Night) da Nighttown (1997 – Virgin)
10. THE MYSTERY LIGHTS: Too Tough To Bear da The Mystery Lights (2016 – Wick Records)
11. THE BLUE NILE: The Downtown Lights da Hats (1989 – Linn Records)
12. CALIBRO 35: An Asteroid Called Death da CLBR35 live from S.P.A.C.E. (2016 – Record Kicks)
13. MARK HOLLIS: Watershed da Mark Hollis (1998 – Polydor)
14. HUGO RACE: The Serpent Egg da Fatalists (2010 – Interbang Records)