È un onore per me aprire l’undicesima stagione di RadioRock.TO. Meraviglioso ritrovarvi e riprendere insieme il nostro viaggio in musica dopo la pausa estiva. Il mio primo pensiero va alle persone colpite così duramente dal terremoto di fine agosto, è stata una tragedia che ci ha colpito moltissimo da vicino. Come molti di voi sapranno, il 90% dello staff di Radiorock.TO vive nei pressi della capitale, e molti hanno origini, familiari o casa di villeggiatura proprio nei posti così duramente colpiti dal sisma. Spero davvero che stavolta lo stato possa riuscire a far ritrovare la propria identità ad un popolo così duramente colpito negli affetti, nelle strutture, nel lavoro e nel quotidiano. Il mio pensiero va a chi sta lottando per riappropriarsi della propria individualità personale e territoriale. La musica ha spesso il potere terapeutico di guarire le anime, lenire in qualche modo il dolore, come una pozione magica, un incantesimo primordiale, facendoci fare viaggi immaginari di enorme suggestione emotiva. Come il viaggio percorso dai torinesi Stearica, ispirati nella scrittura del loro ultimo album ‘Fertile’ (leggi recensione) dalla rivolta degli Indignados spagnoli, insieme al quelle tra medio oriente e nord africa della cosiddetta Primavera Araba. Un viaggio in un immaginario che parte dal Delta del Nilo, fiume che inonda e poi rende la vita, sino allo Shāh Māt, che è da interpretare nella doppia lettura ‘Scacco Matto/Il re è morto’. Mi sono soffermato in mezzo al viaggio, in quel crocevia chiamato “Geber”, nome latino usato per chiamare Jabir ibn Hayyan, ovverosia il primo alchimista della storia, il brano del disco in cui, parole del chitarrista Francesco Carlucci, “sento che questo è il pezzo dove tutti e tre siamo stati più gruppo”. Carlucci, insieme a Luca Paiardi (basso) e Davide Compagnoni (batteria) è riuscito a creare davvero un maestoso e personale crocevia tra post e math-rock, stoner e psichedelia. Su Davide Compagnoni parlerò sicuramente in maniera più diffusa nel prossimo podcast, vista l’uscita del suo album solista (leggi recensione) con il moniker di KHOMPA, un disco in qualche modo assolutamente rivoluzionario.
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Mark Perry è stato un personaggio di enorme passione e coerenza stilistica ed artistica. Impiegato di banca folgorato dopo aver visto dal vivo i Ramones, Perry portò l’immaginario punk nel Regno Unito prima pubblicando la prima fanzine punk chiamata Sniffin’ Glue, poi creando gli Alternative TV, band di grande influenza all’epoca per la sua linea assolutamente indipendente e per le tendenze sperimentali, band tra le altre cose ancora attiva nel 2016. ‘The Image Has Cracked’ è stato il primo album degli ATV, disco che è stato ristampato recentemente insieme ai due album seguenti in uno di quei cofanetti fondamentali per valore musicale e completezza che sono stati pubblicati negli ultimi anni dalla Cherry Red. Il loro classico “Still-Life” qui lo troviamo in una versione registrata per una delle famigerate Session del compianto John Peel.
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Ho già parlato in fase di recensione dei Rhyton da Brooklyn, trio capace di rompere gli steccati tra i generi, esplorando molteplici radici musicali, e creando un paesaggio sonoro modernista in continuo movimento. Il loro nuovo album intitolato ‘Redshift’, colpisce per la varietà dei generi, per la capacità avventurosa di confrontare le tradizioni country con varie suggestioni aliene. mettere a confronto brulli territori alieni con rigogliose tradizioni folk e country. Così facendo riescono a sviluppare anche matrici musicali diverse, come nell’apertura di “The Nine”, dove il chitarrista Dave Shuford (D.Charles Speer) imbraccia il bouzouki attingendo a piene mani dalle tradizioni balcaniche.
L’incedere complesso e dissonante legato alla tradizione folk di alcune tracce del disco dei Rhyton, mi ha ricordato quanto fatto in piena era post-rock da John Fahey insieme ai Cul De Sac in quello scrigno ricolmo di meraviglie assolute chiamato “The Epyphany of Glenn Jones”. Andiamo dunque a trovare il gruppo di Boston, ma senza l’apporto del folk blues metafisico dell’ombroso chitarrista. I Cul De Sac sono stati forse il miglior gruppo dell’era post-rock a non provenire dall’asse Chicago-Louisville. Il loro rock strumentale, il suono pieno di tensione ritmica, con le partiture chitarristiche tra psichedelia, folk e suggestioni mediorentali di Glenn Jones, e i fremiti dissonanti e kraut del synth di Robin Amos, ha creato una via avventurosa e mai virtuosistica di interpretazione del post-rock. ‘China Gate’ è stato probabilmente l’album della maturità, con l’innesto del nuovo batterista John Proudman ed un suono in grado di amalgamare in maniera perfetta e levigata le varie influenze della band. “Doldrums” è un perfetto esempio di come l’evoluzione della band di Boston abbia poi portato la band l’anno successivo a registrare il proprio capolavoro insieme a John Fahey.
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Minor Victories è il nome di un nuovo “supergruppo” che comprende Rachel Goswell degli Slowdive, Stuart Braithwaite dei Mogwai, Justin Lockey degli Editors, e suo fratello James Lockey, film-maker dei Hand Held Cine Club. Durante gli ultimi mesi, la band aveva condiviso alcuni cortometraggi e video per preparare l’uscita del loro album di debutto, autointitolato, che a dispetto del mio istintivo dubitare di questi progetti, si rivela molto interessante. Un disco abbastanza compatto e coerente, con una robusta e scura ritmica wave, sferzate di chitarre shoegaze, e la voce della Goswell che accarezza sussurrando tra note malinconiche e dream pop. Esaustiva in questo senso la splendida “Breaking My Light” con il suo robusto ritornello e le splendide aperture di archi.
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E visto che abbiamo parlato dei Mogwai, eccoli con un brano tratto dal loro album di esordio, ‘Young Team’, che fece scoprire nel 1997 il post-rock anche alla parte della stampa specializzata britannica meno di nicchia. Il loro approccio melodico e quasi Floydiano alternato a squarci estremamente violenti, ha reso il loro suono estremamente riconoscibile. Magari dopo non hanno confermato la bontà dell’esordio, o forse solo a tratti, rimangono comunque le emozioni di questa splendida “Katrien”, quì proposta nella violenta versione live allo storico Lounge AX di Chicago, tratta dalla Deluxe Edition dell’album.
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Non amo i Pink Floyd più legati alla scena progressive, quelli dal suono fin troppo levigato di ‘Dark Side’ non mi suscitano più emozioni da tempo. Ho una predilezione per la prima fase della band britannica, quella legata alla prima psichedelia inglese, e all’estro del “crazy diamond” Syd Barrett. ‘A Saucerful Of Secrets’ è stato il secondo album del gruppo, registrato durante un periodo di transizione, con i problemi mentali di Barrett che via via stavano lo stavano portando al completo isolamento. Durante le registrazioni del disco fu inserito nel gruppo David Gilmour, proprio per sopperire alle continue assenze del chitarrista. A livello compositivo c’è poca traccia di Barrett sul secondo lavoro, se non la conclusiva “Jugband Blues”, e anche in fase di registrazione non suonò in tutte le canzoni del disco. L’unica canzone della discografia ufficiale dei Floyd dove suonano tutti e cinque i componenti, dove quindi sono contenute parti di chitarra suonate sia da Gilmour sia da Barrett, è “Set the Controls for the Heart of the Sun” scritta da Waters e manifesto di una fase di grande magma creativo.
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L’ultimo richiamo odierno alla scena post-rock, è quello a uno dei gruppi di nicchia, i Rex, capitanati dall’obliquo Doug Scharin, talentuoso batterista che all’epoca prestava anche i suoi servigi nell’onirico slow-core dei Codeine e stava per intraprendere l’avventura dei June Of 44. Tra richiami psichedelici ai primissimi Pink Floyd, suggestioni “Codeiniane”, e squarci rurali (che portarono anni dopo la band ad un cantautorato urbano alla Bonnie ‘Prince’ Billy), l’album di esordio della band si snoda piacevolmente, lento ma inesorabile, e ricco di suggestioni come nell’iniziale “Nothing Is Most Honorable Than You”.
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La Daptone Records, etichetta che ha risollevato le sorti della soul music, ha creato da poco la sua sussidiaria rock, che promette di ottenere i medesimi obiettivi. Nuova linfa al rock & roll dunque è l’obiettivo che si è prefissata la Wick Records, promettendo meraviglie e focalizzandosi, parole loro, su “only the finest Rock ‘n Roll combos on the scene today”. Dopo tali premesse ho approcciato con enorme curiosità l’ascolto della prima uscita ufficiale della nuova etichetta, l’opera prima di un gruppo che ha fatto il grande salto trasferendosi dalla piccola città di Salinas, California alla tentacolare NYC. Mike Brandon (chitarra e voce) e LA Solano (chitarra) hanno suonato insieme dall’adolescenza sotto molti nomi diversi prima di prendere definitivamente il nome di The Mystery Lights. Mettere la puntina sui solchi del loro esordio equivale ad andare in soffitta ed aprire lo scrigno impolverato dei ricordi. Il suono immediato e viscerale ci trascina sin dall’inizio in un vortice temporale che fa venire inevitabilmente in mente quei gruppi degli anni ’60 e ’70 che hanno saputo unire l’istintività garage alla dilatazione psichedelica, il tutto condito dalla calda registrazione analogica della House of Soul. Il gran finale del disco è affidato a questa “What Happens When You Turn The Devil Down” che conquista definitivamente grazie al canto appassionato di Brandon e all’onestà intellettuale di un gruppo che sa come citare gli espliciti riferimenti senza essere mai derivativo.
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I The Membranes sono un gruppo formato agli albori degli anni ’80 dal bassista John Robb. Rimasero attivi dal 1981 al 1989, incidendo 6 album ed una manciata di singoli ed EP. Il loro art-punk interessante e spigoloso, arguto e scazzato, ma non privo di una spiccata componente pop, riuscì a catturare solo lo status di gruppo di culto e l’ammirazione di una piccola fetta di pubblico tra cui, fortunatamente, c’erano anche alcuni personaggi di un certo rilievo per la storia del rock tra cui John Peel, Mark Stewart e Steve Albini. Dopo lo scioglimento del gruppo, Robb si dedicò quasi esclusivamente al mestiere di giornalista, sia televisivo per la BBC sia come autore di libri, pubblicando, tra le altre cose, anche una splendida retrospettiva sul periodo punk intitolata Punk Rock: An Oral History, fino a quando nel 2010 decise di riformare la band. Il album doppio album uscito nel 2015 ed intitolato ‘Dark Matter/Dark Energy’, ce li fa ritrovare in forma strepitosa. La band di Blackpool mostra subito un’energia ed una forza inaudita. Una delle migliori tracce del lotto, è “Dark Energy”, brano dallo sviluppo fiammeggiante e funkeggiante che avvolge, si insinua grazie all’ausilio del violoncello, e finalmente conquista. La band si ricorda del suo passato meravigliosamente anarchico, riprendendo i suoni da loro sciorinati e sintetizzati negli anni ’80 ma attualizzandoli dinamicamente ai giorni nostri e aumentandone ancora, se possibile, l’energia ed il groove.
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Un anno e mezzo fa il songwriter di Chicago Ryley Walker aveva conquistato vecchi e nuovi adepti del folk-rock con un album chiamato Primrose Green. In un lungo afflato confessionale, Walker si era inginocchiato davanti all’altare dei suoi numi tutelari e aveva riferito tutti i suoi peccati al reverendo Cooper Crain (Cave, Bitchin Bajas) con dovizia di particolari. L’inquieta sei corde dell’autore, le ossessive e jazzate inquietudini, l’afflato pastorale, le impennate psichedeliche, il virtuoso fingerpicking, tutto si era amalgamato a meraviglia riuscendo a convincere ed emozionare pubblico e critica. Non meraviglia dunque l’attesa intorno al ritorno di Walker, dove e come avrebbe traghettato la sua anima inquieta. Dopo un lunghissimo tour il chitarrista ha raccolto le sue idee, gli appunti presi ovunque in giro, e si è chiuso in tre diversi studi di Chicago insieme al produttore e polistrumentista Leroy Bach, noto per aver fatto parte dei Wilco dal 1998 al 2004. Il nuovo lavoro si chiama ‘Golden Sings That Have Been Sung’, ed è leggermente diverso da precedente, meno prolisso e più personale. Le coordinate sono sempre quelle ma Bach gli da un taglio forse troppo ricercato e meno popolare. In ogni caso le canzoni ci sono, l’abilità di percorrere gli spazi folk, blues e jazz con il suo emozionante fingerpicking anche, come nella splendida “The Halfwit In Me” che apre l’album.
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Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. E se la mente quando si parla della band di Graham Sutton, va sempre a vagare nella notte dei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica in quel tesoro nascosto chiamato ‘Hex’ (1994), o ai meravigliosi singoli che lo avevano preceduti, in pochi ricordano l’inaspettato ritorno della band sul luogo del delitto 10 anni più tardi con ‘Codename: Dustsucker’. Certo, il paragone con il predecessore era ingombrante e davvero troppo pesante, ma ecco tornare nelle foto del libretto di copertina, i paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che avevano ispirato l’artwork di ‘Hex’. La lineup prevede un solo altro membro originario, Mark Simnett, oltre a Sutton, ma dietro ai tamburi siede Lee Harris (Talk Talk e O’Rang), altro pezzo grosso di cotanta musica immaginifica. Quando si ascolta “Burning The City” ed il suo arpeggio di chitarra accompagnato dal piano, e i contrappunti percussivi di Harris, è come se venissero azzerati i 10 anni di distanza, e una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima.
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Una vita a dir poco difficile, quella di Charles Bradley, sempre sull’orlo dell’abisso, tra abbandoni, povertà, disperazione. Una vita dove la sua voce divina non lo aiutava a pagare le bollette, una storia fatta di sangue, sudore, lacrime e redenzione. Ne passa tante di traversie, rischia la morte per una reazione allergica alla penicillina, vede morire il fratello, lavora come aiuto cuoco nel Maine per 10 anni, ma non abbandona mai il suo sogno, quello di calcare i palcoscenici come il suo idolo. Tornato a NYC, per sbarcare il lunario, si esibisce in alcuni locali come clone di James Brown sotto il nome di Black Velvet. Un giorno la sua vita cambia radicalmente: Gabriel Roth aka Bosco Mann co-fondatore della Daptone Records, lo nota e si convince che Bradley è assolutamente perfetto per entrare nel roster della sua etichetta, un personaggio ed una voce ideale per il revival funk/soul che tuttora non conosce crisi. Impossibile non volergli bene, non essere colpiti dalla sua storia e dalla sue performance vocali che grondano sudore e passione vera. Il terzo album di Bradley si chiama “Changes”, come la cover della ballata per pianoforte scritta dai Black Sabbath per il loro “Vol 4” del 1972, e già registrata da Bradley insieme alla The Budos Band per il Black Friday Record Store Day del 2013 in un 7″ limitato a 1000 copie. Fa sorridere dire “album della maturità” per un artista che ha spento 67 candeline, ma è proprio così, perchè il soul-singer padroneggia ogni brano con una abilità ed una forza emotiva davvero impressionante. “Changes” è l’album di un artista ormai completo e confidente del suo status di stella dell’attuale panorama soul, che riesce a padroneggiare sia la classicità del genere che i diversi innesti stilistici con grande naturalezza. Il suo non è un revival, ma la sua vera essenza, la sua realtà, ed è questo a conquistare e a fare tutta la differenza del mondo.
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E visto che parliamo di soul music, andiamo a chiudere il podcast con un artista ed un brano che ho sempre amato. Marvin Gaye è stato un artista importantissimo nello sviluppo della soul music, tra i primi ad assecondare lo spirito della Motown che divenne presto punto di riferimento della soul music afroamericana con il suo repertorio di alta fattura che strizzava l’occhio alle classifiche. Gaye nel 1971 fa cambiare tendenza alla Motown con ‘What’s Going On?’, manifestto della nuova soul music, un disco che allontana in qualche modo l’amore carnale per mettere in primo piano la paura per i cambiamenti del mondo, per le condizioni sociali di alcune categorie di persone e per l’inquinamento ambientale. Un album di profonda spiritualità che cambia la prospettiva della musica afroamericana. Due anni dopo Gaye incide il suo altro capolavoro, “Let’s Get It On”, dove cerca una sorta di compromesso tra spiritualità e sensualità, con il suo incedere vocale meravigliosamente inquieto. Voglio chiudere il podcast proprio con la title track di quest’album, una canzone cui sono davvero molto legato anche perché è il filo conduttore della colonna sonora di High Fidelity, film/libro sul rapporto musica/vita/amore che ho sempre amato in modo particolare.
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E per il primo appuntamento della 11 Stagione è tutto, non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast basta cliccare sul link qui sotto. Buon Ascolto
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TRACKLIST:
STEARICA: Geber da ‘Fertile’ (2015 – Monotreme Records)
ALTERNATIVE TV: Still-Life [BBC Radio 1 John Peel Session 05/12/77] da ‘The Image Has Cracked’ (1978 – Deptford Fun City Records)
RHYTON: The Nine da ‘Redshift’ (2016 – Thrill Jockey)
CUL DE SAC: Doldrums da ‘China Gate’ (1995 – Thirsty Ear)
MINOR VICTORIES: Breaking My Light da ‘Minor Victories’ (2016 – Play It Again Sam [PIAS])
MOGWAI: Katrien [Live at Lounge AX, Chicago, 15/10/97] da ‘Young Team’ (1997 – Chemikal Underground)
PINK FLOYD: Set The Controls For The Heart Of The Sun da ‘A Saucerful Of Secrets’ (1968 – Columbia)
REX: Nothing Is Most Honorable Than You da ‘rex’ (1995 – Southern Records)
THE MYSTERY LIGHTS: What Happens When You Turn The Devil Down da ‘The Mystery Lights’ (2016 – Wick Records)
THE MEMBRANES: Dark Energy da ‘Dark Matter/Dark Energy’ (2015 – Cherry Red)
RYLEY WALKER: The Halfwit In Me da ‘Golden Sings That Have Been Sung’ (2016 – Dead Oceans)
BARK PSYCHOSIS: Burning The City da ‘Codename: Dustsucker’ (2004 – Fire Records)
CHARLES BRADLEY: Changes da ‘Changes’ (2016 – Daptone Records)
MARVIN GAYE: Let’s Get It On da ‘Let’s Get It On’ (1973 – Tamla)