Alzi la mano chi avrebbe ancora scommesso un centesimo su un ritorno in grande stile dei Tortoise. Troppo deludenti le ultime prove discografiche di una band tra le poche davvero significative negli ultimi decenni.
Il gruppo, soprattutto negli ultimi due lavori (‘It’s All Around You’ del 2004 e ‘Beacons Of Ancestorship’ del 2009), sembrava davvero allo sbando, musicisti troppo ripiegati ad insistere su un certo manierismo che ormai aveva ben poco delle felici sperimentazioni di inizio carriera, e un suono divenuto quasi scontato, una specie di jazz-rock-lounge, cercando di non usare il termine fusion, perfino troppo dispregiativo per la band di Chicago. Doug McCombs, John McEntire, John Herndon, Dan Bitney e Jeff Parker con il loro settimo album in carriera hanno invece saputo assestare un inatteso colpo di coda. The Catastrophist inizia a prendere vita nel 2010, quando il Chicago Cultural Center commissionò alla band di comporre musica che omaggiasse le comunità di musicisti della locale scena jazz/improv. Il risultato furono 5 strutture libere, successivamente portate in tour insieme ad altri musicisti. Tornati alla base, i cinque decisero di prendere spunto da quei suoni per creare il nuovo album, entrando in studio, riassemblando e ristrutturando le tracce create e rendendole più simili ad una forma canzone.
Ed è questa la prima piccola grande rivoluzione di questo disco: l’aver asciugato finalmente il suono pur mantenendo vivi i loro minuziosi arrangiamenti. La seconda (e più importante) è che dopo averne discusso (pare) in fase di registrazione di ogni album, la band ha finalmente deciso di inserire la voce in ben due degli undici pezzi che compongono l’album, chiamando a collaborare Todd Rittmann dei Dead Rider e Georgia Hubley degli Yo La Tengo.
“The Catastrophist, l’uomo che campeggia sulla copertina del disco”, spiega Dan Bitney, “è come uno strano amico, non è un personaggio tragico, ma sembra che tutte le cose gli stiano crollando intorno”.
L’apertura di synth della title track evolve presto in un classico arpeggio della chitarra jazz di Jeff Parker, seguito a ruota dal resto della band che costruisce un elegante struttura da quei navigati multistrumentisti che sono, facendo emergere dal tappeto sonoro ora il vibrafono ora le tastiere. “Ox Duke” si muove quasi sulle stesse galleggianti coordinate, morbido nel suo incedere, increspato se andiamo ad analizzare le tessiture di synth e tastiere sotto il drumming preciso come un metronomo di McEntire ed Herndon. Insieme a “Rock On”, arriva il primo scossone, la traccia, cantata come detto da Todd Rittmann, altro non è che la title track dell’album di esordio di David Essex uscito nel 1973, oscuramente rivista sotto le lenti dei chicagoani e dell’esperienza Dead Rider/US Maple del cantante. Non passa inosservata, seppure scorra molto velocemente, la scura e sintetica “Gopher Island” prima che venga assorbita dal ritmo pesante di “Shake Hands With Danger” che trascina in una scura e vorticosa danza quasi mediorientale.
Contraltare del groove dinamico del brano precedente è “The Clearing Fills”, capace di ricordare i brani più rarefatti di ‘TNT’, per poi sbriciolarsi in una lunga coda quasi ambient. “Gesceap” (scelto come primo “singolo”!), è il brano più lungo del lotto, oltre sette minuti dove due morbide linee di synth si intersecano lentamente, fino a far esplodere tutte le influenze motorik che ricordano così tanto i Can di Future Days. Con “Hot Coffee”, la band riprende un’idea già avuta in passato ma mai messa in pratica, di una sincopata ritmica funk accoppiata a dei beats quasi danzerecci e alla sensibilità jazz della chitarra di Parker che dice: “E’ musica progressive sperimentale con una sensibilità pop.” Ecco il secondo brano cantato, quello che non ti aspetti, la morbida ballata soul di “Yonder Blue”. Inizialmente la band aveva pensato addirittura alla voce di Robert Wyatt, ma dopo che quest’ultimo aveva gentilmente declinato l’invito, è stata affidata a Georgia Hubley degli Yo La Tengo. C’è ancora tempo per gli arabeschi ed il ritmo spezzato e ricomposto di “Tesseract”, e per il passo cadenzato della conclusiva “At Odds With Logic”. I Tortoise si stanno preparando per un lungo tour che toccherà anche l’Italia a febbraio.
“Immaginare come poter riprodurre live queste canzoni sarà una bella sfida”, ammette John McEntire.
E’ difficile evolvere e crescere dopo una ricca carriera ultra ventennale, ma la band ha saputo portare nuova linfa, cancellando in parte le opache prestazioni degli ultimi lavori, e confezionando un disco elegante e asciutto dalle pulsazioni morbide in superficie ma irrequiete ed in continua metamorfosi se andiamo ad esaminare gli arrangiamenti in profondità. E per chi ha amato come me le meraviglie dei primi due lavori, è davvero un immenso piacere ritrovarli tra gli ascolti preferiti, ma non nominate loro il termine post-rock…