Molti ricorderanno senz’altro gli Harvey Milk, gruppo di Athens in Georgia con all’attivo 7 album in studio e 1 dal vivo tra il 1994 ed il 2010, e autore di un suono cupo, pesante e doom che li ha spesso accomunati ai più fortunati Melvins.
Il bassista del gruppo, Stephen Tanner, dopo la morte dell’amico fraterno Jerry Fuchs (batterista tra gli altri di Maserati e !!!, deceduto in modo assurdo nel 2009 dopo un volo di 5 piani dal vano di un ascensore guasto) e lo split del gruppo avvenuto nel 2010, è caduto in una terribile crisi depressiva. La copertina del suo primo lavoro in solitaria uscito sotto il nome di Music Blues ed intitolato ‘Things Haven’t Gone Well’, mostra il suo stato di abbandono e di trascuratezza: un lavandino lercio con un cumulo di mozziconi di sigaretta sopra, e meno male che almeno appare una saponetta. Come è avvenuto in altri casi (come Josh T.Pearson ad esempio), Tanner ha provato ad elaborare e superare il suo dolore elaborando e scrivendo una dozzina di “canzoni” scure, pesanti, che già dai titoli (“Trying And Giving Up”, “Great Depression”, “Failure”, “It’s Not Going To Get Better”) non lasciano spazio ad alcun lieto fine, ad alcuna redenzione.
L’album si svolge come un racconto autobiografico, dalla nascita (“91771” non è altro che la sua data di nascita 17/9/71) avvenuta con un parto cesareo prematuro (“Premature Caesarean Removal Delivery”), fino alla depressione, al fallimento e alla conseguente rassegnata desolazione (“It’s Not Going To Get Better”). Certo, raccontato così non viene effettivamente una gran voglia di mettere la puntina sul disco (che si può trovare anche in una prima stampa in vinile color shit brown, che speriamo per lui possa essere una vaga forma di autoironia), ma in realtà queste dodici canzoni esclusivamente strumentali (a parte la voce rallentata e cavernosa che esce fuori in “Teach The Children”), risultano incredibilmente tanto pesanti e funeree quanto accattivanti e appiccicose. Ad esempio la pesante cadenza psichedelica di “Trying And Giving Up” è qualcosa che è difficile staccare dalla pelle, con i suoi rintocchi funerei e i riff quasi sabbathiani, così come il suono terribilmente lento ed ottundente di “Great Depression” che ci riporta, come gli Harvey Milk, direttamente ai Melvins.
Chi o che cosa può salvare Tanner dalla sua nera visione non ci è dato di sapere, ma una piccola lama di luce appare in certe aperture chitarristiche di “It’s Not Going To Get Better”, uno dei brani migliori del disco, nonostante il titolo non ci induca certo a sperare nei miracoli. L’elegia funerea e viscerale di “The Price Is Wrong” vale quasi da sola il prezzo del biglietto, e lo strampalato colpo di trombone posto in chiusura ci strappa il primo sorriso della giornata e un altro piccolo ma significativo sentore di una certa autoironia. Quello che ci auguriamo è che Stephen Tanner possa presto, anche grazie a questo disco, sconfiggere i suoi personali demoni, senza però, e questo lo auguriamo a noi, perdere la sua capacità di scrittura.
