È possibile ascoltare un gruppo sgradevole, “politically incorrect”, disordinato, anarchico, malato, sghembo – nell’accezione peggiore del termine – e rimanerne entusiasmati a tal punto da voler riscrivere a causa loro la Playlist dell’anno appena trascorso?
Ebbene sì! È quello che mi è successo all’ennesimo giro di questo ‘Champagne Holocaust’ che proprio non ne vuol sapere di allontanarsi dalla puntina del mio piatto. Loro si fanno chiamare The Fat White Family ed hanno in un outsider autarchico come Mark E. Smith (leader dei Fall) e nella furia espressionista dei Birthday Party alcune delle loro principali influenze; vengono dal sud di Londra ma si tratta in realtà un gruppo multietnico, capitanato dal cantante Lias Saudi e dal chitarrista Saul Adamczewski (gli altri membri sono Adam Harmer: chitarra, Joe Panucci: basso, Nathan Saoudi: tastiere, e Dan Lyons: batteria). Le loro stramberie non riguardano la componente strettamente musicale. Sono ormai numerosi gli aneddoti che li riguardano: si narra di strumenti prima affittati e poi venduti, di alcuni concerti cancellati senza alcun preavviso e di altri conclusi con Saudi completamente nudo coperto di olio e farina; per non parlare della ormai famosa data di Sheffield dove il frontman ha pensato bene di “espletare i suoi bisogni fisiologici” sul palco in segno di protesta contro i proprietari del locale colpevoli, a suo dire, di aver pagato la loro performance con 2 miseri drink a testa… Insomma, in breve tempo sono diventati un gruppo seguito e controverso, forse uno dei pochi veri casi musicali provenienti dalla capitale britannica, da tempo in cerca della “Next Big Thing”.
La principale ragione di questo entusiasmo, a parte l’attenzione dei media, è sicuramente la loro abilità nel miscelare elementi garage punk, influenze folk, spunti lisergici e manciate di lo-fi, e trasformare il tutto in un risultato tanto sbilenco quanto stranamente equilibrato, tanto dissacrante quanto orecchiabile. L’album in realtà era stato diffuso inizialmente solo attraverso la pagina Bandcamp del gruppo, ma la qualità della proposta e la “reputazione” del gruppo hanno poi lanciato Champagne Holocaust verso la distribuzione attraverso l’etichetta Trashmouth, con la sorpresa finale di trovarlo inserito in molte classifiche 2013 di webzines e riviste specializzate di oltremanica.
Come dicevo, l’album presenta una notevole varietà di stili: si parte con il suadente mantra di “Auto Neutron“, che si rivela essere una specie di carta moschicida, in cui il tappeto di tastiere, la chitarra distorta e le voci che si inseguono fanno in modo di aprire il sipario ed invitarci sul palco. Ma ad ogni passo le assi di legno scricchiolano sempre di più e quando l’organo si ferma si ha l’impressione di essere uno di quei personaggi dei cartoni animati cui segano in maniera circolare il pavimento sotto i piedi…che, inevitabilmente, cede mentre partono le campane ed il rock’n roll grezzo di “Is It Raining in Your Mouth?“ dove Saudi inneggia con voce strascicata al sesso orale praticato in macchina:
“five sweaty fingers on the dashboard…”
Non contento di questo, per 3 minuti e sotto una chitarra scordata usata a mo’ di banjo, ha anche il coraggio di biascicare un mantra paranoico chiedendo “Who Shot Lee Oswald?”:
“was it a secret government inside the American government?… Was it the Velvet Underground? Gimme the truth! Was it Bobby Davro?”
prima che parta una “Without Consent” splendida nel suo alternare ritmi tribali e umori lisergici. Il minuto e mezzo del rock sporco e dissonante di “Special Ape” è un irriverente intermezzo che serve a mescolare ancora le carte in tavola prima che parta la meravigliosa “Cream Of The Young”, una delle canzoni migliori del lotto, disordinata e trascinante con una chitarra quasi western a squarciare un tappeto di percussioni e tastiere. Ma non è finita, anzi: ci sono ancora l’attitudine garage rockabilly di “Wild American Prairie”, il folk ubriaco di “Borderline” ed il punk da strada di “Heaven On Earth” prima che arrivi a spazzare tutto “Bomb Disneyland”, inno esuberante che conclude i loro concerti, canzone con un testo tanto provocatorio quanto ai limiti del buon gusto:
“all your kids are dead kids / all your kids are naked / in my mind”
A chiudere il cerchio ci pensa il country sghembo e dissonante di “Garden Of The Numb”, che nel testo non le manda certo a dire ad alcuni non identificati personaggi che cercano la gloria ad ogni costo nel mondo del music business:
“you’d sell your mother’s cunt to open doors…”
evocando così la lurida creatura che campeggia sulla copertina del disco: una caricatura di uomo con la testa di maiale ed un enorme fallo, impegnato a tenere nelle mani una falce ed un martello entrambi insanguinati. Grotteschi, estremisti, sfrenati, psicotici, viscerali: insomma in una sola parola IRRESISTIBILI! Una boccata di aria fresca che ci voleva nello stantio magazzino del rock attuale. E se non ne avete abbastanza, andate pure a ripescare l’EP registrato in coabitazione con i compagni di etichetta Taman Shud, troverete ‘Wet Hot Beef’ per i vostri denti….