Ecco l’ultimo appuntamento per l’11°stagione di RadioRock.to The Original delle avventure in musica di Sounds & Grooves
L’undicesima stagione di radiorock.to si è conclusa il 5 agosto. Sono stati ben 24 gli episodi di Sounds & Grooves e mi sembrava doveroso chiudere in bellezza con un ultimo episodio prima di riprendere le trasmissioni l’8 settembre. E’ stata una splendida stagione in cui abbiamo cercato come sempre di offrirvi il meglio della musica passata e presente. Speriamo di esserci riusciti. Sono 76 stavolta i minuti da passare insieme, iniziando con la carica industriale dei NIN, per passare alla nuova psichedelia dei Pontiak, alle scogliere di Brighton degli Who di Quadrophenia, al pop di classe così uguale e così diverso di The Only Ones, The The e Teenage Fanclub, il folk oscuro dei Pearls Before Swine, la meraviglia italiana dei Julie’s Haircut, il trascinante rock classico di Tom Petty e Neil Young, l’energia creativa e schizofrenia dei Minutemen e degli Husker Du, e ancora Elvis Costello e Lambchop per chiudere il cerchio.
Download, listen, enjoy!!!
Prima di partire con questo viaggio in musica pubblicato come sempre sul sito della migliore podradio italiana www.radiorock.to, potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Iniziamo con la grande carica live dei Nine Inch Nails condotti da Trent Reznor, che è riuscito a mettere su una creatura spietata e potente, innestando in un corpo industriale l’anima di un cantautore tanto introspettivo quanto rabbioso. L’esordio nel 1989 con Pretty Hate Machine è di quelli da ricordare, il secondo concept The Downward Spiral addirittura un capolavoro di follia e rabbia condotto da Reznor ribattezzatosi per l’occasione “Mr.Self Destruct”. L’album live And All That Could Have Been arriva nel momento più felice della band, quello successivo allo splendido doppio The Fragile, apice delle nevrosi e della creatività del suo leader che si lascia andare a briglie sciolte. “Terrible Lie”, il brano che apre concerto e disco, fa parte dell’album di esordio dei NIN, ed è eseguita alla perfezione mostrando un gruppo perfettamente rodato e in forma. Subito dopo con With Teeth (2005) inizia il lento declino del gruppo, fino ai giorni nostri, ma chissà se il nuovo EP appena uscito riuscirà a risollevare le azioni di Reznor e compagnia.
Tra le accidentate e nebbiose salite delle Blue Ridge Mountains, in Virginia, i fratelli Carney stavolta hanno fatto trascorrere tre anni per pubblicare il nuovo album a nome Pontiak. Un inconsueta lunga pausa se pensiamo al loro usuale modo di lavorare. Ma non sono stati certo con le mani in mano, hanno infatti creato un birrificio artigianale nella loro fattoria, riuscendo a rivalutare il loro processo creativo proprio attraverso la produzione della birra. Le lezioni apprese da questa sperimentazione hanno avuto un effetto estremamente creativo sia sulle idee di base che sul suono più lisergico e meno arrembante che possiamo ascoltare su Dialectic of Ignorance. Non lasciatevi ingannare dall’introduzione quasi marziale, perché “Hidden Prettiness” si trasforma velocemente in materia cosmica, con la ritmica a mantenere un’ossatura robusta lasciando planare chitarra e voce in un finale quasi Floydiano. Van, Lain e Jennings Carney hanno fatto l’ennesimo centro, completando così una discografia quasi perfetta che li consacra come miglior band di rock psichedelico del nuovo millennio, capace di standard qualitativi elevatissimi.
Fa un po’ ridere pensare che gli Only Ones hanno avuto un clamoroso successo nel 2006 quando la loro canzone più famosa, “Another Girl, Another Planet” è stata utilizzata per una campagna pubblicitaria della Vodafone. In realtà, il successo “postumo” è stato così forte da convincere Peter Perrett (che aveva formato la band a Londra nell’agosto del 1976) a riunire il suo vecchio gruppo per un tour britannico di grande successo. Il brano, che voglio proporre in questo podcast conclusivo, è tratto dall’album di esordio autointitolato, pubblicato nel 1978, e seguito da altri due album prima dello scioglimento definitivo avvenuto ufficialmente nel 1982. Il loro mix di punk e power pop ha sempre avuto un grande seguito di culto fino al boom del 2006. In ogni caso molti gruppi pagherebbero di tasca propria pur di avere nel proprio repertorio un brano così, assolutamente perfetto.
Pete Townshend aveva 28 anni quando scrisse Quadrophenia, e se quattro anni prima i The Who avevano fatto centro con Tommy, la seconda rock opera della band inglese se possibile colpisce ancora più profondamente riuscendo a disegnare una generazione di ragazzi in cerca di un’identità. Il ragazzo della storia, Jimmy, vive la sua tormentata delusione nel movimento Mod di cui era membro, viaggiando da Londra a Brighton cercando se stesso. Lo stesso Townshend, prima di suonare live gli estratti da Quadrophenia, dice che la sua opera “parla di quando si hanno 16, 17, 18 anni: un’età complicata per chiunque.” Il titolo è una variazione lessicale del termine schizofrenia utilizzato nell’accezione di disturbo dissociativo dell’identità, in modo da riflettere le quattro distinte personalità (o sbalzi d’umore) di Jimmy. Allo stesso tempo, il titolo rappresenta la personalità di ciascun membro degli Who. Un’opera tuttora fortunata che è diventata un film di culto nel 1979 e ha avuto negli anni diverse adattamenti teatrali. La Vespa che cade sulle rocce di Brighton, Jimmy sulla scogliera, non un tentativo di suicidio, ma semplicemente la fine dell’illusione e il ritorno alla vita normale, dopo la distruzione del simbolo della cultura mod e il rifiuto di uno stile di vita i cui valori per Jimmy non hanno ormai più alcun significato. Nel percorso verso la presa di coscienza attraverso le sofferenze c’è la storia di ogni adolescente.
Full Moon Fever non è semplicemente il primo album a nome Tom Petty senza la sigla associata dei The Heartbreakers, ma soprattutto il disco della maturità di un grande artista. Profondamente attaccato alle sue radici Tom Petty è una sorta di eroe americano, e questo primo album che porta il suo nome è la summa delle esperienze maturate con la sua band e di quelle fresche create insieme ai Traveling Wilburys, una sorta di supergruppo di eroi del rock provenienti dalle decadi passate (George Harrison, Bob Dylan, Roy Orbison, Jeff Lynne e lo stesso Petty) creato con il compito di riprendere i modelli del rock anni ’60 e rivederli aggiornandoli agli anni ’80. L’esperienza con questi mostri sacri è confluita nel primo album a suo nome, dove si alternano ballate meravigliose a cavalcate veloci come la fiammeggiante “Runnin’ Down A Dream”, con un fantastico Mike Campbell alla chitarra e un Jeff Lynne raffinato regista.
Gli Hüsker Dü si sono sciolti alla fine degli anni 80. Da quel momento in poi i tre membri della band (il cantante/chitarrista Bob Mould, il batterista Grant Hart, ed il bassista Greg Norton) hanno fatto vite completamente separate, anche se un anno fa era stato pubblicato un nuovo sito di merchandising ufficiale, che aveva fatto pensare ad una reunion che avrebbe del clamoroso. La band di Minneapolis era sempre in bilico tra la cupa introspezione di Mould e la spavalderia di Hart, che si spartivano da (quasi) buoni fratelli la scrittura delle tracce dei dischi. Il penultimo album in studio della band di Minneapolis si intitolava Candy Apple Grey inciso quando gli equilibri interni si erano già incrinati. Era già evidente la differenza tra le ballate intimiste di Mould e le tracce più tirate e spavalde di Hart come questa splendida “Don’t Want To Know If You Are Lonely”.
Non c’è molto da dire ancora su Neil Young e sulla sua lunghissima carriera che, partita nel 1968, non sembra ancora destinata al capolinea vista l’uscita dell’ottimo Peace Trail lo scorso anno. E mentre è appena uscito Hitchhiker, una raccolta di canzoni acustiche incise nel ’76 agli Indigo Ranch Studios in Malibu in California e mai pubblicate prima d’ora, io sono tornato indietro al 1969, quando esce Everybody Knows This Is Nowhere, primo lavoro che vede la collaborazione del canadese con i Crazy Horse: Danny Whitten (chitarra), Billy Talbot (basso) e Ralph Molina (batteria). Il risultato è un perfetto incrocio tra folk e rock, con alcuni brani che entreranno di diritto nella storia del rock, come questa “Cinnamon Girl” con cui sono andato sul sicuro.
Mondi che si scontrano con fragore: proto-punk, hardcore, free jazz, power pop, musica sperimentale, funk, soul, rock psichedelico e il primo trip di acidi tutto insieme. Il trio più memorabile e creativo a memoria d’uomo, quello formato dalla voce e dalla chitarra di D.Boon, dal basso rutilante di Mike Watt e dalla batteria di George Hurley. I Minutemen hanno frullato decenni di musica servendoli in un unico meraviglioso e prezioso scrigno intitolato Double Nickels On The Dime. I tre di San Pedro (porto di Los Angeles) hanno condensato in 43 (!) brani tutta la loro esplosività, abbandonando in parte l’hardcore degli inizi per approdare ad un suono caleidoscopico e trascinante, dove la ritmica funk si sposa con il calor bianco dell’hardcore, lasciando un piccolo spazio anche per il folk, in un esplicitare i più disparati generi musicali che non risulta mai ne dispersivo ne disomogeneo. La sequenza iniziale del primo disco “Anxious Mo-Fo / Theatre Is The Life Of You / Viet Nam / Cohesion” è da urlo. L’album è uno dei più innovativi del rock e chissà dove i tre ci avrebbero portati se la carriera del gruppo non si fosse drammaticamente conclusa con la morte di Boon in un incidente con un furgoncino in Arizona il 22 dicembre 1985, a soli 27 anni. A seguito della morte di Boon, né Watt né Hurley avevano intenzione di continuare a suonare. Ma, incoraggiati da un fan del gruppo formarono i fIREHOSE nel 1986 insieme all’allora ventiduenne Ed Crawford, chitarrista e fan dei Minutemen. Tra i progetti paralleli di Watt c’è da annoverare quello insieme ai nostri Stefano Pilia e Andrea Belfi chiamato Il Sogno Del Marinaio.
Spesso ci si dimentica di lui, ma Matt Johnson è stato un personaggio importante nella scena musicale inglese degli anni ’80. I The The sono la sua creatura con cui ha sviluppato il suo canovaccio sonoro dal 1983 fino ad arrivare alle colonne sonore dei giorni nostri. Soul Mining è un album tanto bello quanto importante, sette brani in cui Johnson rivela la sua personale visione del pop, rivestito di tessuto soul, e di un grande e complesso senso dell’armonia. “Uncertain Smile” è senza dubbio uno dei vertici del disco, un post-punk edulcorato, travestito da pop jazzato con venature soul, e uno strepitoso finale firmato dal torrenziale pianoforte di Jools Holland, si, proprio il noto conduttore televisivo del programma Later… with Jools Holland in onda sulla BBC da molti anni.
E che dire di Declan Patrick MacManus in arte Elvis Costello? Non lo passavo da tempo, vero, e ho deciso di non mettere un brano dai suoi dischi più famosi e riusciti (come This Year’s Model tanto per intenderci). Tempo fa ho ritrovato questo vinile quasi per caso e ho deciso di metterlo su, un disco in cui Costello rispolvera la vecchia sigla Imposters degli esordi per registrare un disco old style. Momufuku è una bella sferzata del bel Costello del primo periodo, quello che oscillava con incanto tra pub-rock, pop, soul, country e songwriting. “Stella Hunt” è il perfetto manifesto dell’album, lunga e nevrotica nel suo incedere estremamente tirato nella sua elettricità. L’album è stato registrato in meno di una settimana ed è uscito (almeno all’inizio) solo in vinile e senza pubblicità preventiva, proprio per la voglia dell’artista londinese di rifarsi agli anni ’70 anche nelle modalità di pubblicazione.
I Teenage Fanclub sono senza alcun dubbio i re del power pop scozzese, con il cuore sempre rivolto ai Big Star. La loro esplosione è dovuta ad un album Bandwagonesque, che ha le radici proprio nel suono creato da Chilton e Bell, ma che si è dimostrato attuale e al passo dei tempi uscendo per la Creation nel 1991 quasi in contemporanea con Loveless dei My Bloody Valentine. Il disincanto pop, la vibrante indole indie rock, tutto si incastra perfettamente in un album marchiato dalle penne di Norman Blake e Gerard Love che si dividono la quasi totalità dell’album lasciando poco o nulla all’altra chitarra e voce di Raymond McGinley. Here è stato il loro ritorno lo scorso anno dopo sei anni di silenzio, i membri fondatori (Norman Blake, Raymond McGinley, e Gerard Love) hanno registrato l’album con l’aiuto dell’ingegnere del suono David Henderson, il loro batterista di fiducia Francis Macdonald ed il tastierista Dave McGowan. Un album che certifica la loro padronanza di scrittura e la loro indiscutibile capacità di scrivere canzoni che entrano dritte nel cuore. come dimostra la splendida “Thin Air”.
l lungo viaggio dei Julie’s Haircut è arrivato alla settima fermata, un momento cruciale per la band emiliana perché Invocation and Ritual Dance of My Demon Twin viene pubblicato da una delle etichette più importanti del mondo in ambito psichedelico, la britannica Rocket Recordings. Dal 2005 la musica del gruppo si è mossa verso territori più sperimentali, concentrandosi maggiormente sull’improvvisazione e la ricerca sonora, senza perdere contatto con il groove e la melodia che hanno caratterizzato la loro musica fin dalla formazione avvenuta nel 1994. Il collettivo giunge quindi ad un crocevia importante del proprio percorso evolutivo, e lo supera splendidamente salendo sul razzo simbolo della label britannica per esplorare il cosmo dal punto di vista della loro metà oscura. C’è tanto all’interno di questo ambizioso lungo viaggio, la psichedelia tout court, le suggestioni del Miles Davis elettrico, il krautrock, tracce di afro-beat, aperture orientaleggianti, ma il tutto è veicolato ottimamente svolgendosi in una trama avvincente e suggestiva che va assaporata e assorbita con calma. La grande varietà di questo esoterico trip viene confermata dall’esponenziale accrescimento dinamico della Doorsiana “Gathering Light”. Tra voci impalpabili, ipnotiche circolarità che dilatano lo spazio sonoro, improvvisazioni, fiati evocativi e spirito anarchico, l’album si snoda in maniera eccelsa portandoci in un mondo tanto oscuro quanto affascinante, consegnandoci un gruppo che è cosa buona e giusta inserire nell’eccellenza della nostra (martoriata) Italia in musica.
I Lambchop sono un gruppo attivo da ben 30 anni, che riesce anno dopo anno ad essere incredibilmente sempre unico pur cambiando ogni volta. Solo quel diavolo di Kurt Wagner, con la sua capacità di scrivere canzoni meravigliosamente senza tempo poteva farmi apprezzare addirittura una delle invenzioni più atroci della storia della musica: il vocoder. Il loro ultimo album, uscito nel 2016 e intitolato ‘FLOTUS’ (acronimo di For Love Often Turns Us Still), pur flirtando in modo evidente con l’elettronica glitch, è un disco che richiede pazienza, tempo, ascolto, uno scrigno di emozioni contenute tra due argini che durano più di 15 minuti ma che vorremmo non finissero mai. “Directions to the Can” è il perfetto esempio della maestria assoluta di Wagner nella scrittura di splendenti meraviglie, tra bassi pulsanti, archi sospesi nel cielo e il pianoforte a tinteggiare il tutto.
Nella compilazione del primo episodio della RNR Time Machine avevo colpevolmente omesso uno dei gruppi più interessanti dell’epoca. Nel 1965 un cantante folk di nome Tom Rapp si trasferì dal Dakota del Nord a New York fondando il suo gruppo, chiamato Pearls Before Swine insieme ai suoi ex compagni di scuola Wayne Harley (banjo, mandolino), Lane Lederer (basso e chitarra) e Roger Crissinger (piano e organo). Il gruppo non ebbe mai una formazione stabile, l’unica costante fu Rapp, eccentrica mente del gruppo che esordì per la storica etichetta ESP Disk con un album intitolato One Nation Underground in cui il suo folk psichedelico si rivestiva di misticismo, protesta sociale e malinconia. “Drop Out!” è una delle canzoni di protesta e una delle migliori tracce del lotto. L’album fu un best seller per l’etichetta con circa 200.000 copie vendute. Le prime copie del disco avevano all’interno un poster raffigurante il pannello dell’inferno del famoso dipinto di Hieronymus Bosch Garden of Earthly Delights, un dettaglio del quale appare sulla copertina del disco, almeno sulla prima tiratura perché l’album ha avuto svariate ristampe con numerose copertine diverse. Il secondo lavoro del gruppo, Balaklava, lo troverete sicuramente da settembre nel secondo episodio della RNR Time Machine.
A questo punto insieme all’intero staff di RadioRock.TO vi do l’appuntamento all’8 settembre, giorno in cui ci ritroveremo insieme e dove ci saranno delle grandi novità. Troverete sempre un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod, ma tutto sotto l’hashtag #everydaypodcast. Ci sarà anche l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani. Tutte le novità le trovate sempre aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. NINE INCH NAILS: Terrible Lie da ‘And All That Could Have Been (Live)’ (Nothing Records – 2002) original version on ‘Pretty Hate Machine’ (1989)
02. PONTIAK: Hidden Prettiness da ‘Dialectic Of Ignorance’ (Thrill Jockey – 2017)
03. THE ONLY ONES: Another Girl, Another Planet da ‘The Only Ones’ (CBS – 1978)
04. THE WHO: Quadrophenia da ‘Quadrophenia’ (Track Record – 1973)
05. TOM PETTY: Runnin’ Down A Dream da ‘Full Moon Fever’ (MCA Records – 1989)
06. HÜSKER DÜ: Don’t Want To Know If You Are Lonely da ‘Candy Apple Grey’ (Warner Bros. Records – 1986)
07. NEIL YOUNG with CRAZY HORSE: Cinnamon Girl da ‘Everybody Knows This Is Nowhere’ (Reprise Records – 1969)
08. MINUTEMEN: Anxious Mo-Fo/Theatre Is The Life Of You/Viet Nam/Cohesion da ‘Double Nickels On The Dime’ (SST Records – 1984)
09. THE THE: Uncertain Smile da ‘Soul Mining’ (Epic – 1983)
10. ELVIS COSTELLO and THE IMPOSTERS: Stella Hurt da ‘Momofuku’ (Lost Highways – 2008)
11. TEENAGE FANCLUB: Thin Air da ‘Here’ (Pema – 2016)
12. JULIE’S HAIRCUT: Gathering Light da ‘Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin’ (Rocket Recordings – 2017)
13. LAMBCHOP: Directions To The Can da ‘FLOTUS’ (Merge Records – 2016)
14. PEARLS BEFORE SWINE: Drop Out! da ‘One Nation Underground’ (ESP Disk – 1967)