Il 1967 è il punto di svolta nella storia della musica popolare…
C’è questa idea che mi girava intorno da tanti anni. Avevo addirittura iniziato tempo fa, sommerso da una quantità indefinita di libri sulla storia del rock e vari articoli su riviste e webzine, compreso Scaruffi!!! si…lo ammetto senza pudore. Fogli excel come se piovessero, con media voti dei dischi nemmeno dovessi fare i conti al Fantacalcio… Un obiettivo: quello di tornare a ritroso nel tempo e rivivere la lunga epopea del Rock dal 1967 ad oggi. Incredibile ma vero la prima trasmissione è realtà!!!! Questo viaggio in musica è iniziato lunedi scorso 26 giugno (clicca a questo link per scoprire la prima parte), e adesso è possibile effettuare il download anche della seconda parte di questo lungo (oltre 2 ore e mezza) podcast dal sito www.radiorock.to oppure se avete una connessione sufficientemente veloce, potete ascoltare e scaricare la versione completa a 320 kb/s cliccando sul banner qui sotto.
Facciamo un piccolo riassunto di quella che era la situazione sociale e politica nel 1967.
Il presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnston (arrivato alla Casa Bianca dopo l’improvvisa morte di John Fitzgerald Kennedy, ucciso in un attentato a Dallas il 22 novembre 1963), si trova a fronteggiare l’inestricabile guazzabuglio della guerra del Vietnam, affrontando una situazione che sembra essere sempre più compromessa grazie alle decisioni prese dai suoi predecessori. Ma anche lui ci mise del suo, facendo l’errore di farsi coinvolgere sempre più profondamente nel conflitto indocinese approvando (tra l’altro) proprio all’inizio del 1967 un’offensiva, che si rivelerà fallimentare, sul delta del Mekong.
Fu l’ennesimo colpo subito dal “sogno americano”, che mai come in quell’anno era sul punto di sgretolarsi, scatenando l’emergere di una nuova controcultura che segnò profondamente gli ideali e l’immaginario di un’intera generazione. Una rivoluzione sociale e culturale senza precedenti che ebbe l’epicentro a San Francisco nella seconda metà dell’anno prendendo il nome di Summer of Love. I giovani dell’epoca crearono nuove comunità che mettevano al posto dei valori tradizionali, nuovi ideali di amore e spiritualità e, contemporaneamente una generale apertura all’uso di droghe e, dal lato musicale, fu propedeutico alla nascita del genere psichedelico. L’apice artistico della Summer of Love fu il Monterey Pop Festival, che svolse nella cittadina californiana dal 16 giugno al 18 giugno 1967. Vi parteciparono più di 200.000 persone ed è riconosciuto come l’inizio del movimento hippie e il precursore del festival di Woodstock, che si svolse due anni più tardi. Fu la prima grande apparizione americana di Jimi Hendrix, oltre che un enorme vetrina per artisti del calibro di Big Brother & the Holding Company (con Janis Joplin), Country Joe and the Fish, Quicksilver Messenger Service, Moby Grape, The Byrds, Laura Nyro, Jefferson Airplane, Otis Redding, Grateful Dead, Buffalo Springfield, Mamas & Papas, e The Who. Il festival regalò anche un’esibizione che adesso potremmo definire world music, con un’ipnotica esibizione di Ravi Shankar (unico artiste che fu pagato per la sua esibizione), il sitarista indiano diventato celebre per la sua influenza su George Harrison, chitarrista dei Beatles.
In Gran Bretagna intanto sedeva sulla poltrona di Primo Ministro, Harold Wilson, guida del Partito Laburista. Wilson era un appassionato di musica, tanto da riuscire a far nominare dalla Regina Elisabetta II i Beatles come “baronetti”. Wilson fu di nuovo poi Primo Ministro dal 1970 al 1976, attuando una politica che cercava di preservare il benessere e la stabilità sociale del Welfare State applicando una politica deflazionistica. Ma i costi elevati del Welfare State e l’eccessivo peso politico concesso ai sindacati furono le basi della crisi del Partito Laburista e, quindi, dei successivi trionfi di Margaret Thatcher.
Quello che a noi interessa di più è l’aspetto musicale, anche se mai come in quegli anni, è profondamente intrecciato a quello che era il tessuto sociale e politico dell’epoca. La realtà musicale di quei giorni riuscì a far cadere le barriere stilistiche, geografiche, razziali, portando alla luce un modo nuovo di muoversi nel mondo dei suoni, una modalità curiosa, mutevole, vibrante. Così oltre alla già segnalata Summer of Love che lanciò nomi come Jefferson Airplane e Jimi Hendrix, nel 1967 ci fu l’esplosione della psichedelia britannica con i Pink Floyd, l’album più maturo e consapevole dei Beatles, che grazie alla loro superiore qualità di scrittura e ai mezzi tecnici degli Abbey Road Studios (che nessuno all’epoca poteva permettersi), pubblicano uno degli album più importanti della storia della musica. Ma vogliamo parlare dell’importanza del debutto dei Velvet Underground? Con la sua copertina iconica e per tutto quello che ha significato per la musica e l’arte nei decenni a seguire. E ancora, dell’esordio di Captain Beefheart, dei Doors, dei Traffic, della scrittura di Leonard Cohen, della follia free-form dei Red Crayola. La consacrazione di Rolling Stones, Love, The Byrds, Tim Buckley, Buffalo Springfield, la radio pirata dei The Who, la satira sociale di Frank Zappa.
Tutto questo e molto altro creano dei tasselli che si incastrano andando a formare un puzzle dalle notevoli varianti stilistiche e dalla qualità di produzione musicale senza precedenti. Non dimentichiamo che gli artisti britannici di quegli anni sono figli di un dopoguerra estremamente duro segnato dalla povertà e dalla paura, da un paese dilaniato dalle bombe che riesce a superare una prova estremamente dura. Negli States naturalmente era molto diverso, la rivoluzione del rock era già arrivata, ma il 1967 fa iniziare un periodo di grande scambio culturale che segnerà un’epoca.
Nella prima parte abbiamo iniziato parlando di alcuni ousiders, come la grande nave scuola del blues britannico capitanata da John Mayall buttandoci poi a capofitto ad ascoltare la svolta nella carriera di “Lady Soul” Aretha Franklin, la radio pirata dei The Who, l’esordio di Captain Beefheart e Traffic, la consacrazione di Byrds e Buffalo Springfield in USA e dei Rolling Stones e Cream in UK, chiudendo con la follia free-form dei Red Crayola a sublimare l’uso di LSD. Adesso è arrivato il momento di ascoltare e rivivere gli 11 migliori album usciti in quell’anno leggendario.
Iniziamo quindi con il navigatore di stelle, un uomo che cambiò per sempre il punto di riferimento dei songwriters. Naturalmente fino a quel momento chiunque iniziasse a scrivere ed interpretare canzoni con la chitarra e voce doveva fare i conti con Bob Dylan. Tim Buckley aveva iniziato la sua carriera l’anno prima proprio con Dylan come riferimento, ma la sua voce era un dono divino per noi comuni mortali, un’estensione innaturale che lo portò ad intraprendere i viaggi più avventurosi dicendo per sempre addio alla figura del folksinger tradizionale. Il primo viaggio di Tim Buckley iniziò proprio nel 1967 con l’album Goodbye & Hello, un disco ispirato proprio da Blonde on Blonde di Dylan e scritto a quattro mani con l’amico e paroliere Larry Beckett. Un disco che dal folk si dirige verso il jazz, la psichedelia, grazie alla scrittura e alla voce di Buckley, vero e proprio strumento dalle incredibili potenzialità. Un incanto infinito come “I Never Asked To Be Your Mountain”, dove Buckley in qualche modo si scusa con la moglie Mary Guilbert, dalla quale aveva appena avuto un figlio, Jeffrey Scott, che sarà conosciuto semplicemente come Jeff Buckley.
C’era una volta una band che si affacciava nello scintillante e ancora vergine mondo della psichedelia britannica. L’unione dei nomi dei due bluesman Pink Anderson e Floyd Council darà vita ad una delle formazioni più famose ed influenti di sempre. La formazione dei Pink Floyd che nel 1967 incide il primo album vede Syd Barrett alla voce e alla chitarra, Roger Waters al basso, Richard Wright alle tastiere e Nick Mason alla batteria. The Piper At The Gates Of Dawn è stato l’unico album inciso con l’apporto delle allucinazioni psichedeliche di Barrett, che riuscì a creare un mondo di enorme fascino prima di venire risucchiato dalle sue stesse visioni e dipendenze che lo fecero abbandonare la band per ritirarsi ad un progressivo totale isolamento fino alla morte avvenuta nel 2006. Del suo genio ci restano due album solisti e questa prova magistrale insieme alla sua creatura, così diversa da quella che è poi diventata… progressivamente. “Interstellar Overdrive” non è solo l’apertura del viaggio intrapreso dalla band britannica, ma il lungo resoconto di un viaggio interplanetario alla scoperta di un nuovo mondo, il viaggio stellare intrapreso da Barrett attraverso l’uso dell’LSD accompagnato dal basso pulsante di Waters e dalla batteria incessante di Mason sul tappeto cosmico oscuro e tenebroso creato dalle tastiere di Wright.
Nel 1966 il noto esponente della controculture britannica Mick Farren fondò i Social Deviants, probabilmente ispirato dalla satira sociale dei Fugs (di cui parleremo nel prossimo episodio della RNRTM). Farren fu il primo ad organizzare la sezione britannica delle White Panthers, e l’anno dopo cambiò la ragione sociale nel più semplice e diretto The Deviants. L’amicizia con il 21enne figlio di un milionario, Nigel Samuel, gli diede la possibilità di esprimere il suo potenziale e le sua musica tra garage e psichedelia, pregna di testi socialmente impegnati, in un album intitolato Ptooff! Album dall’inconfondibile copertina fumettistica, perfetta per evidenziare l’onomatopeico titolo. Farren comanda il disco da perfetto istrione ed agitatore culturale qual’è sempre stato, come dimostra questa “I’m Coming Home”, che dimostra la carica eversiva e proto-punk del gruppo. Dopo il primo scioglimento della band avvenuto nel 1969, Farren ha iniziato una carriera come scrittore e giornalista, ricomponendo la sua creatura di tanto in tanto ad intervalli regolari, mentre alcuni suoi compagni di avventura andranno a formare i Pink Fairies, ma quella è un’altra storia di cui ci occuperemo a tempo debito.
Anche se devo cercare di rimanere più obiettivo possibile in questa avventura alla guida della Macchina del Tempo del Rock, non nascondo che i Love sono sempre stati tra le mie band preferite in assoluto uscite dagli anni ’60. Il gruppo fu importante non solo perché è stato uno dei primi gruppi multirazziali negli Stati Uniti, ma per il visionario e riuscito mix di psichedelia e suggestioni beat dove si va ad innestare una fantastica componente orchestrale che al posto di appesantire il suono lo va a dirigere magistralmente verso il cielo. Già nel novembre 1966 avevano trovato la quadratura del cerchio con un album splendido intitolato Da Capo, ma un anno dopo, se possibile, i cinque riescono a perfezionarsi alzano l’asticella ancora più in alto con il meraviglioso Forever Changes, uno dei dischi più memorabili di quella indimenticabile stagione. Eppure per il talentuoso Arthur Lee e compagni la registrazione del disco era stata tutto fuorché tranquilla. Il produttore Bruce Botnick infatti aveva trovato una band a pezzi, squassata dalle droghe e dall’alcool, tanto da dover “affittare” un paio di turnisti per le sessioni in studio. Nonostante questo l’album, registrato in quattro lunghi mesi, è un miracolo di equilibrio e di melodie affascinanti, senza punti deboli. “You Set The Scene” è il brano che chiude in maniera perfetta con i suoi curatissimi arrangiamenti, il capolavoro dei Love.
Poteva mancare all’appello la band statunitense di rock psichedelico per definizione? Certo che no! Nel 1967 i Jefferson Airplane dopo l’ingresso di Grace Slick in formazione, addirittura raddoppiano facendo uscire due dischi meravigliosi: Surrealistic Pillow e After Bathing At Baxter’s. Difficile se non impossibile scegliere tra i due titoli, due classici assoluti del gruppo californiano. Il secondo, uscito a soli sei mesi di distanza dal primo, presenta una struttura ancora più complessa, andando a sostituire i brani più brevi con delle mini suites che mettevano in evidenza Paul Kantner e proprio Grace Slick come i due maggiori compositori della band, a scapito di quello che fino ad allora era stato il maggior compositore, Marty Balin. Il disco quindi va a raggruppare più canzoni in diverse miniopere, tre nel primo lato e due nel secondo. “The Ballad Of You & Me & Pooneil”, scritta da Kantner, è la prima parte della suite “Streetmasse” che apre il disco, anche se ho voluto proporla nella splendida versione lunga proposta dal vivo che mostra un gruppo sempre più a suo agio nelle improvvisazioni on stage.
Nel 1967 il canadese Leonard Cohen ha già 33 anni ma si è già affermato come poeta e scrittore pubblicando la sua prima raccolta di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, nel 1956 a soli 22 anni. Il suo debutto come cantautore è tanto tardivo quanto importante, voluto dal produttore John Hammond ed intitolato semplicemente Songs Of Leonard Cohen. L’album fa registrare una novità importante, rispetto a folksinger impegnati socialmente e politicamente come Dylan, lo sguardo di Cohen si rivolge all’individuo, ai suoi conflitti interiori. Una poetica introspettiva con riferimenti alla mitologia e ai temi biblici che non gli farà trovare all’epoca in riscontro del grande pubblico, ma che verrà rivalutata eccome con il tempo. Una delle canzoni più famose del disco, è sicuramente quella che apre l’intero lavoro, “Suzanne”, un’ode a una ragazza “mezza pazza” che viveva vicino a St. Lawrence River a Montreal. Scomparso pochi mesi fa, nel novembre 2016, Cohen è stato semplicemente uno dei più grandi poeti, cantautori e scrittori del nostro secolo. Ci mancherà, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia.Ci mancherà, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia.
I Beatles arrivano al 1967 forti del grande successo di Revolver che in qualche modo era stato l’album della svolta (se così si può dire) per il suono dei Fab Four. A McCartney era venuta questa idea di creare una sorta di concept album come se fosse eseguita da un’ipotetica orchestra, quella del Sgt. Pepper, idea con ogni probabilità presa in prestito da Freak Out di Zappa uscito l’anno prima. Lennon non sposò completamente l’idea ma acconsentì alla creazione di un prodotto omogeneo e alla famosa copertina, capolavoro iconico della pop art che paradossalmente fu parodiata l’anno dopo proprio da Zappa. I Beatles avevano già deciso di abbandonare le scene e si dedicarono completamente al lavoro in studio: 129 giorni per 700 ore di registrazione nelle sale di Abbey Road con il produttore George Martin, con una spesa complessiva (incredibile per l’epoca) di cira 25.000 sterline!!! Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band è un album tra i più celebrati dell’epoca, e divenne presto il nuovo riferimento per chiunque volesse incidere un disco da quel momento in poi. “A Day In The Life” non è solo il brano che chiude l’intero lavoro ma anche il manifesto della creatività della coppia Lennon/McCartney e dell’incredibile ed inedito lavoro in studio. Il brano è l’unione di due canzoni separate che vengono unite in studio dal lavoro di un’orchestra di 45 elementi (McCartney ne avrebbe voluti 90!).
Un altro degli incredibili album di debutto usciti nel corso del 1967 è sicuramente quello di un giovane talentuoso chitarrista che rivoluzionerà in qualche modo l’approccio con lo strumento principe del rock. Jimi Hendrix arriva a Londra guidato dall’ex bassista e produttore dei The Animals, Chas Chandler, che lo introduce nel giro britannico e inizia a cercare dei musicisti che possano affiancarlo. Chandler trova presto il chitarrista Noel Redding che si presta a suonare il basso nella nuova band ed il batterista Mitch Mitchell. I tre, rinominati The Jimi Hendrix Experience firmano un contratto discografico con la neonata Track Record, l’etichetta fondata dai manager degli Who: Kit Lambert e Chris Stamp. Nonostante le registrazioni studio, anche per il budget limitato, non rendano l’idea della magia sprigionata on stage dal chitarrista mancino, vero e proprio sciamano della sei corde, Are You Experienced è un album straordinario, capace di contenere alcuni dei riff più celebri di sempre, e brani che da 50 anni sono la colonna sonora di ogni appassionato di rock che si rispetti come “Foxy Lady”, la splendida cover di “Hey Joe” e l’incredibile “Purple Haze” che propongo in questa trasmissione. Nonostante la vita e di conseguenza la parabola artistica di Hendrix avrà una tragica e prematura fine, ritroveremo l’artista di Seattle con un nuovo capolavoro anche nel prossimo episodio dedicato al 1968.
Nel 1966 Frank Zappa insieme al suo gruppo, The Mothers Of Invention, aveva esordito pubblicando il secondo album doppio della storia del rock (dopo Blonde on Blonde di Bob Dylan), Freak Out! era stato anche il primo concept album della storia a dipingere con ironia dissacrante un’America ossessionata e resa stupida dai media. Un anno dopo ecco il grande ritorno della dissacrante band con Absolutely Free, un album composto da due lunge suites (una per lato) dove si compongono la satira politica e sociale che non risparmia niente e nessuno, e l’incredibile capacità strumentale della band che riesce a miscelare con facilità stili differenti proponendo un suono unico. Zappa si accanisce di nuovo contro i mass media, contro la guerra in Vietnam, contro le multinazionali, contro gli hippies e le groupies. Accompagnato da Ray Collins (voce), Roy Estrada (basso), Jim Black (batteria, tromba), Don Preston (tastiere), Ian Underwood (tastiere, sax), Bunk Gardner (fiati e rumori), Billy Mundi (percussioni), Jim Fiedler (chitarra), Zarubica (voce che impersona Susy Creamcheese, stereotipo delle groupies), Zappa mette in piedi un credibile e fantastico teatro che interpreta con passione da attore consumato, come attesta “The Duke Of Prunes”, cantato dalla splendido baritono di Collins.
Altro esordio incredibile, altro gruppo che è entrato nell’olimpo del rock. Galeotto fu l’incontro tra Jim Morrison e Ray Manzarek, entrambi studenti della UCLA School of Theater, Film and Television dell’Università della California. Leggenda vuole che Morrison canticchiò a Manzarek il testo di una canzone che aveva scritto, “Moonlight Drive” e che il tastierista dalle solide basi musicali aveva riconosciuto subito il potenziale del giovane. Da li alla formazione dei The Doors (nome preso dalle “porte della percezione” descritte dal poeta visionario William Blake) insieme al chitarrista Robbie Krieger e al batterista John Densmore passa poco tempo. Le performance della band e del loro carismatico e teatrale frontman infiammano la West Coast prima di trovare il naturale sbocco nell’esordio autointitolato. Nonostante l’indubbio carisma e fascino è davvero ingeneroso limitare l’importanza della band al cantato e al personaggio di Jim Morrison. Sono stati una band visionaria, intensa, sensuale, selvaggia, Densmore con la sua ritmica jazz, Krieger e la sua abilità di chitarrista, Manzarek ed il suo suono facilmente riconoscibile in grado di riprodurre anche le linee di basso, strumento che non fa parte del quartetto. Il loro modo di unire poesia e musica, vita e arte è stato quasi ineguagliato e l’impatto proto punk del singolo “Break on Through (To the Other Side)” assolutamente devastante.
Chiudiamo l’episodio dedicato al 1967 con un gruppo che probabilmente è stato il più influente e saccheggiato per i decenni successivi da generazioni di gruppo di rock cosiddetto alternativo. Un esordio accolto con indifferenza dal pubblico, non dimentichiamo che all’epoca era di moda la West Coast, il movimento hippie e flower power, per cui l’avanguardia, i racconti di strada e gli artisti di una New York disperata. Lou Reed, Sterling Morrison e John Cale formano il primo nucleo dei Velvet Underground, ma il loro approccio è troppo crudo e scandaloso per piacere. Dopo Dopo aver sostituito il batterista Angus MacLise con Maureen “Moe” Tucker, è un concerto al Café Bizarre, un locale del Greenwich Village a cambiare le carte in tavola. Tra il pubblico sono presenti anche alcuni frequentatori della Factory di Andy Warhol: i registi Barbara Rubin e Paul Morrissey ed il ballerino Gerard Malanga. Dopo averli ascoltati dal vivo sono proprio loro che suggeriscono a Warhol di assumerli come possibile resident band della sua Factory. Warhol suggerisce alla band di prendere come cantante una sua pupilla, l’attrice e modella tedesca Christa Päffgen più conosciuta come Nico, arrivata negli USA come compagna del chitarrista dei Rolling Stones, Brian Jones. Il gruppo andò in giro per gli States come parte dell’Andy Warhol Up-Tight (poi diventato Exploding Plastic Inevitable), uno spettacolo che univa musica, danza e proiezioni dei cortometraggi dello stesso Warhol con l’accompagnamento sonoro di Reed e compagni. Ritmi ossessivi, largo uso della dissonanza, il cantato di Lou Reed, che recitava testi che toccavano spesso temi come morte, solitudine, alienazione urbana, droga ed il sesso, questi erano gli elementi portati su disco grazie alla Verve Records che pubblicò in quel freddo 12 marzo newyorkese The Velvet Underground & Nico. Già l’artwork entrò nella storia. Priva di riferimenti alla band, la copertina disegnata e firmata dallo stesso Warhol, rappresentava una banana invitando chi la guardava a “sbucciare lentamente e vedere” (peel slowly and see). Infatti nelle prime copie stampate togliendo l’adesivo si poteva vedere un’allusiva banana rosa. Dalla dolcezza sinistra di “Sunday Morning” alla tossicodipendenza di “Heroin”, dalla sperimentazione di “The Black Angel’s Death Song” alla perversione bondage di “Venus In Furs” (prima descrizione esplicita di un rapporto sadomasochistico padrone-servo mai apparsa in un brano di musica rock), tutto l’album è un viaggio scuro e crudo, condotto dalla viole di Cale, dal tribale mantra di Moe Tucker, dalla seducente Nico e dal fascino perverso di Reed. Vibrante, seducente, un mix di amore e dolore, un disco che nonostante le poche copie vendute (anche a causa di un problema legale) diventa mito, culto. Una sperimentazione sonora così diversa da quello che andava di moda in quegli anni da diventare una vera e propria pietra miliare e disco fondamentale per comprendere molto rock alternativo dei decenni a seguire.
Spero che questa primo volume abbia soddisfatto le vostre aspettative, nel prossimo episodio che andrà a sviscerare quanto accadde in musica nel 1968, troveremo alcuni nomi già trattati in questo episodio come gli stessi Velvet Underground, Beatles o Jimi Hendrix, insieme a nuovi artisti come Van Morrison, Grateful Dead o Silver Apples in grado di pubblicare album straordinari.
Potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Vi do quindi appuntamento al prossimo mese, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
PART 1
01. JOHN MAYALL AND THE BLUESBREAKERS: A Hard Road da ‘A Hard Road’ (Decca)
02. BONZO DOG DOO-DAH BAND: Big Shot da ‘Gorilla’ (Liberty)
03. KALEIDOSCOPE (UK): Flight From Ashiya da ‘Tangerine Dream’ (Fontana)
04. ARETHA FRANKLIN: Respect da ‘I Never Loved A Man The Way I Love You’ (Atlantic)
05. BUFFALO SPRINGFIELD: Broken Arrow da ‘Buffalo Springfield Again’ (ATCO Records)
06. CREAM: Sunshine Of Your Love da ‘Disraeli Gears’ (Reaction)
07. TRAFFIC: Dear Mr Fantasy da ‘Mr. Fantasy’ (Island Records)
08. THE WHO: I Can See For Miles da ‘The Who Sell Out’ (Track Record)
09. THE BYRDS: My Back Pages da ‘Younger Than Yesterday’ (Columbia)
10. CAPTAIN BEEFHEART AND HIS MAGIC BAND: Electricity da ‘Safe As Milk’ (Buddah Records)
11. THE ROLLING STONES: All Sold Out da ‘Between The Buttons’ (Decca)
12. THE RED CRAYOLA: Transparent Radiation da ‘The Parable Of Arable Land’ (International Artists)
PART 2
13. TIM BUCKLEY: I Never Asked To Be Your Mountain da ‘Goodbye And Hello’ (Elektra)
14. PINK FLOYD: Interstellar Overdrive da ‘The Piper At The Gates Of Dawn’ (Columbia)
15. THE DEVIANTS: I’m Coming Home da ‘Ptooff!’ (Underground Impresarios)
16. LOVE: You Set The Scene da ‘Forever Changes’ (Elektra)
17. JEFFERSON AIRPLANE: The Ballad Of You & Me & Pooneil [Live-Long Version] da ‘After Bathing At Baxter’s’ (RCA Victor)
18. LEONARD COHEN: Suzanne da ‘Songs Of Leonard Cohen’ (Elektra)
19. THE BEATLES: A Day In The Life da ‘Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band’ (Parlophone)
20. THE JIMI HENDRIX EXPERIENCE: Purple Haze da ‘Are You Experienced’ (Track Record)
21. FRANK ZAPPA & THE MOTHERS OF INVENTION: The Duke Of Prunes/Invocation & Ritual Dance Of The Young Pumpkin da ‘Absolutely Free’ (Verve Records)
22. THE DOORS: Break On Through (To The Other Side) da ‘The Doors’ (Elektra)
23. THE VELVET UNDERGROUND: Venus In Furs da ‘The Velvet Underground & Nico’ (Verve Records)