Direttamente da Londra ecco l’appuntamento quindicinale con Sounds & Grooves e le sue nuove avventure in musica, come sempre sulle onde sonore di RadioRock.to The Original.
Stavolta ho esagerato, sono ben 82 i minuti da passare insieme, andando a trovare alcune splendide novità (Pontiak, Pissed Jeans e il grande ritorno di Mark Eitzel), e a ripescare le grandi rock opera del passato di Pretty Things, Who e Kinks. Prima di partire con questo viaggio in musica pubblicato come sempre sul sito della miglior podradio italiana www.radiorock.to, potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Apriamo le danze con il ritorno delle eterne promesse dell’hardcore/noise Pissed Jeans. Il loro quinto disco intitolato Why Love Now li consacra ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, è una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostrano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. “Love Without Emotion” è uno dei brani più immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che stupisce una volta di più per potenza muscolare e scrittura raffinata. Tra l’altro in alcuni brani c’è da segnalare anche la presenza della voce narrante della scrittrice Lindsay Hunter.
I Pell Mell sono attivi dal 1981 ma rimasti pressoché sempre nell’anonimato nonostante uno dei suoi fondatori, il tastierista Steve Fisk, sia stato uno dei produttori più influenti del grunge anni ’90 (Soundgarden, Nirvana, Boss Hog, Screaming Trees), e successivamente ha lavorato anche con Low e Car Set Headrest. Autori di 4 album devoti al sound di Link Wray e Duane Eddy con una spruzzata di Morricone, esclusivamente strumentali, i Pell Mell erano già post rock ben 13 anni prima che il termine venisse inventato visto che la loro prima cassetta risale al 1981. Tutti i loro dischi sono estremamente godibili e sostanzialmente intercambiabili. Per il podcast ho scelto l’unico album uscito per una major: Interstate pubblicato dalla Geffen nel 1995: un lavoro esemplare di rock strumentale per chitarra, organo e batteria. Ascoltate la splendida ed evocativa “Butterfly Effect” per credere. Magari se avessero avuto una voce avrebbero avuto maggior appeal, chi può dirlo.
Tra le accidentate e nebbiose salite delle Blue Ridge Mountains, in Virginia, i fratelli Carney stavolta hanno fatto trascorrere tre anni per pubblicare il nuovo album a nome Pontiak. Un inconsueta lunga pausa se pensiamo al loro usuale modo di lavorare. Ma non sono stati certo con le mani in mano, hanno infatti creato un birrificio artigianale nella loro fattoria, riuscendo a rivalutare il loro processo creativo proprio attraverso la produzione della birra. Le lezioni apprese da questa sperimentazione hanno avuto un effetto estremamente creativo sia sulle idee di base che sul suono più lisergico e meno arrembante che possiamo ascoltare su Dialectic of Ignorance. La lunga cavalcata “Easy Does It” messa in apertura si riallaccia infatti alle atmosfere psichedeliche dell’EP Comecrudos con il suo riff circolare, la batteria in levare, e l’organo che fa decollare il tutto. Van, Lain e Jennings Carney hanno fatto l’ennesimo centro, completando così una discografia quasi perfetta che li consacra come miglior band di rock psichedelico del nuovo millennio, capace di standard qualitativi elevatissimi.
Era il 1968 quando a Pete Townshend, fresco sposo e coinvolto spiritualmente dal guru Meher Baba, viene l’idea di scrivere un ciclo di canzoni legate da uno stesso tema spirituale. Tommy fu la vera svolta per la carriera degli Who. I componenti del gruppo, che fino a quel momento avevano fatto a gara sul palco a chi ce l’aveva più lungo, iniziarono a lasciare da parte le proprie eccentricità iniziando a lavorare di più come gruppo, sostenendosi a vicenda. Roger Daltrey, appropriandosi del personaggio principale e immedesimandosi nel bambino traumatizzato che dopo essere diventato mago del flipper acquisisce di nuovo la propria normalità rompendo lo specchio, riuscì a raggiungere la sua definitiva maturità come cantante ed interprete. L’attenzione del pubblico non era più rivolta verso il singolo da classifica, ma verso l’album nella sua interezza, e Townshend era stato perfettamente in grado di capire ed interpretare questo nuovo desiderio da parte della gente. Sono appena stato a Londra per vedere la band suonare per la prima volta dal vivo tutto Tommy per la prima volta dopo 29 anni (anche la prima volta senza John Entwistle). E’ stata una serata di enorme emozione, il 100 concerto a supporto di una nobile organizzazione chiamata Teenage Cancert Trust. Se siete curiosi potete leggere il mio live report a questo link. La mia scelta per il podcast è ricaduta sull’accoppiata “Christmas / Cousin Kevin” (davvero emozionante in versione live), con la seconda (canzone che trattava di bullismo), che all’epoca insieme a “Fiddle About”, Townshend aveva affidato alla penna di Entwistle perché, come il personaggio da lui creato, era stato oggetto di abusi quando era ragazzo e scrivere di questi temi non gli riusciva affatto semplice.
Tommy non è stata la prima rock opera ad uscire sul mercato. Per rock opera si intende una sorta di evoluzione del concept album, una storia pensata non solo per uscire su supporto audio, ma anche in altre vesti come quella teatrale o cinematografica. In questo l’opera degli Who è stata probabilmente la più famosa, visto che è stata oggetto di innumerevoli rappresentazioni teatrali ed è uscita anche nelle sale cinematografiche nella versione surreale di Ken Russell nel 1975. I The Kinks hanno avuto molte idee geniali nell’anticipare la moda ma non hanno mai avuto il tempismo tra le loro doti principali. Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire) fu concepito con ogni probabilità anche prima di Tommy ma fu pubblicata sei mesi dopo. Il cantante Ray Davies, concepì la storia come colonna sonora di uno sceneggiato televisivo per la Granada Television, e sviluppò la storia e i personaggi in collaborazione con lo scrittore Julian Mitchell. Tuttavia, il programma venne cancellato e non andò mai in onda, ufficialmente per mancanza di fondi anche se il frontman della band parlò tra le righe di una sorta di boicottaggio da parte della classe dirigente britannica che non poteva consentire uno sceneggiato che mostrasse il declino della nazione. La storia è quella di un modesto lavoratore della middle class nato durante il regno di Vittoria, che ha visto suo fratello morire durante la prima guerra mondiale, i propri figli emigrare in Australia, uno di loro morire durante la seconda grande guerra, e si ritrova anziano durante la depressione economica successiva. Con “Mr. Churchill Says”, la storia arriva proprio al momento della seconda guerra mondiale, c’è anche la sirena a simulare un allarme aereo mentre Dave Davies fa impennare la sua sei corde in uno splendido assolo tra blues e medioriente seguito da una sezione parlata che sarebbe stata perfetta per il programma televisivo.
La primogenitura delle rock opera britanniche spetta sicuramente ai londinesi The Pretty Things, che nel dicembre 1968 danno alle stampe lo splendido S.F. Sorrow. C’è anche qui una guerra (probabilmente la Prima Guerra Mondiale) all’interno della vita di Sebastian F. Sorrow, raccontata nel disco che inizia con la sua nascita, gli amori, lo sballo, la guerra, la tragedia, la follia e termina con la delusione della vecchiaia. La visione ottimistica del protagonista viene demolita quando la sua compagnamuore accidentalmente, prigioniera della mongolfiera in fiamme di “Balloon Burning”, una splendida incontrollata galoppata che sfocia in tribale incedere ritmico. Il disco al di la dell’importanza storica, colpisce per la sua multiforme sfaccettatura, e per il suo essere classico e sperimentale allo stesso tempo.
Ho già parlato (meritatamente) più di una volta di una band romana chiamata 2Hurt, nata dall’incontro tra il chitarrista/cantante Paolo Bertozzi (ex Fasten Belt) e la violinista Laura Senatore. Incontro proficuo che ha saputo trovare maturità ed equilibrio grazie agli innesti nel corso degli anni di Marco Di Nicolantonio (batterista anche lui ex Fasten Belt), del bassista Giancarlo Cherubini e del chitarrista acustico Roberto Leone. Dopo lo splendido On Bended Knee pubblicato l’anno scorso, la band ha messo insieme 16 tracce prese da vari concerti nel corso degli anni, ed il 1 dicembre ha dato alle stampe questo doppio cd intitolato Live Another Dope per la loro etichetta Lostunes Records. E’ uno splendido viaggio nel tempo e nello spazio, dove la band mostra il suo lato migliore, quello on stage. “Find My Way Back Home”, pur utilizzando un canovaccio già usato ed abusato da Neil Young e i suoi Crazy Horse, riesce ad essere trascinante e a suonare originale, declinato secondo l’affascinante attitudine on the road della band romana, tra tradizione americana, folk e psichedelia. Il brano trova nella veste live la dimensione più consona grazie alla voce spezzata e sofferta di Bertozzi e alla splendida esecuzione di tutta la band. E c’è chi pensa che in italia non si possa fare dell’ottimo rock. Colgo ancora l’occasione per ringraziare di nuovo Paolo Bertozzi per avermi donato il cd all’epoca in assoluta anteprima. La band è in studio per preparare l’atteso seguito a On Bended Knee, aspettiamo trepidanti.
I Morphine sono stati una delle band più innovative geniali ed importanti degli anni novanta. Come definire il suono di un gruppo che mette da una parte lo strumento principe del rock, la chitarra, e basa il suo suono su un sax baritono ed una sezione ritmica? Il basso a due corde e la voce suadente, profonda ed emozionale di Mark Sandman, il sax di Dana Colley e la batteria di Jerome Deupree hanno generato un sound unico, una formula stilistica che attingeva allo stesso tempo dal blues, dalla new wave, dal jazz, ma senza appartenere a nessuno se non a loro stessi. Tenebrosi, affascinanti, energici. Cure For Pain è stato il loro secondo lavoro, album che sta in mezzo ad una triade affascinante e quasi senza eguali tra Good e Yes. Like Swimming del 1997 era stato il primo album del gruppo a mostrare una qualche debolezza, prima che un maledetto attacco cardiaco si portasse via Sandman in una calda serata di luglio a Palestrina, vicino Roma, dove i Morphine si stavano esibendo all’interno del festival nel Nome Del Rock. “Buena” riassume in pochi minuti la potente magia che scaturiva da un gruppo davvero unico.
Non mi aspettavo davvero un ritorno discografico così importante da parte di Mark Eitzel. L’ex leader degli American Music Club, aiutato dall’ex Suede Bernard Butler (che oltre a produrre e registrare ha anche suonato e arrangiato basso, chitarra e batteria), ha dato alle stampe questo Hey Mr Ferryman che si rivela uno scrigno pieno di incredibili e preziose gemme. Splendide melodie, pezzi estremamente trascinanti ed emozionanti, come il meraviglioso crescendo orchestrale di “In My Role as Professional Singer and Ham”. Un ritrovamento inaspettato, un autore che andrebbe riscoperto per i suoi grandi meriti di interprete e di scrittore. Encomio a parte andrebbe fatto per le liriche, sempre argute, ispirate e estremamente a fuoco, con una dedica al compianto Jason Molina.
Alexis Taylor degli Hot Chip qualche anno fa ha dato vita ad un interessante progetto chiamato About Group. A fiancheggiarlo c’è il batterista Charles Hayward degli indimenticabili This Heat, John Coxon degli Spiritualized e Spring Heel Jack e Pat Thomas, tastierista jazz di una certa fama. Start And Complete, il loro secondo album, è stato registrato in un solo giorno negli Abbey Road Studios e pubblicato nel 2011. Le canzoni sono state scritte da Taylor e molte di loro sono state date agli altri membri del gruppo in una versione demo solo per piano e voce pochi giorni prima della registrazione. L’idea di Taylor era che gli altri membri della band non dovevano sapere la canzoni così bene da preparare una specifica parte nel lavoro in studio, lasciando ampio spazio per l’improvvisazione di ciascun musicista. Il disco è molto interessante e variegato, spaziando dai pattern rumoristici agli eleganti e levigati numeri quasi pop condotti dalle tastiere di Taylor come la splendida “Don’t Worry”.
Un ottimo ritorno quello di Gaz Coombes, ex cantante dei Supergrass. Matador è un album pieno di belle canzoni con una componente elettronica mai invasiva ed un songwriting sempre scuro ed affascinante. La sua raggiunta maturità lo ha portato ad essere coinvolgente e convincente anche in versione live su un palco importante come quello di Hyde Park. Un disco a suo modo sperimentale, tra melodie di reminiscenza brit-pop e psichedelia alt-pop, dove a spiccare c’è la splendida scrittura e voce di Gaz Coombes. “To The Wire”, insieme all’opener “Buffalo” è sicuramente la traccia migliore del lotto.
Bill Callahan è sempre una garanzia di qualità, sia quando incide con il suo nome di battesimo e sia quando ha fatto uscire album sotto lo pseudonimo di Smog. Julius Caesar è uscito nel 1993 e presenta al suo interno una grande diversificazione stilistica, dalla ballata country al rock indolente, dalle ondate lisergiche alle suggestioni decadenti, con il violoncello a creare spesso atmosfere desolate. Il disco mostra un lato più orchestrale, immerso però in atmosfere inquietanti e claustrofobiche. “Chosen One” mostra ancora una volta il suo indiscusso talento, uno degli migliori songwriters della sua generazione, ispirato nella sua sarcastica malinconia. Nel 2007 ha abbandonato lo pseudonimo di Smog per incidere album a suo nome.
Eric Chenaux è una sorta di songwriter post moderno. Nato a Toronto, ottimo chitarrista, è entrato nelle grazie della prestigiosa etichetta canadese Constellation Records per il suo modo originale ed obliquo di comporre e di pizzicare le sei corde. Eric ha composto e suonato musica per film e danza contemporanea, e ha collaborato con con l’artista visuale Marla Hlady per numerose installazioni sonore. Tra ostiche sperimentazioni e ballate oblique, Chenaux ha pubblicato quattro album in studio prima di questo ottimo Skullsplitter. la sua voce e il suo suono distintivo vanno di pari passo diventando meno ostici del passato, ma allo stesso tempo strizzando l’occhio ad un viaggio nella memoria. “Have I Lost My Eyes?” è la perfetta apertura dell’album, un brano che mostra le sue romantiche dissonanze, la sua tecnica chitarristica, la sua splendida voce ed un modo quasi unico di coniugare acustica ed elettronica in un disco di grande fascino.
Chiudiamo il podcast con una delle grandi signore della musica d’autore americana. Nata a Chicago ma trasferitasi da giovane a Los Angeles, Rickie Lee Jones si è esibita nei folk club locali prima dell’incontro con Tom Waits nel 1977 che rimane stregato dalla sua abilità e personalità tanto da diventare il suo pigmalione e intraprendere una relazione sentimentale che durerà tre anni. Ma Tom Waits non è l’unico ad accorgersi del suo talento, anche il capo della Warner, Lenny Waronker, rimane talmente colpito dalla giovane songwriter da lanciarla nell’olimpo della canzone d’autore americana producendo nel 1979 il suo album di debutto omonimo, Rickie Lee Jones. La cantautrice di Chicago, aiutata da una serie di grandi turnisti, tra cui Randy Newman, Steve Gadd, Randy Newman e Dr. John, mette in mostra tutto il suo spettro esecutivo, dalle ballate intrise di blues, al country rock ma anche di incursioni nel jazz, e rhythm and blues, il tutto condito da grandi performance vocali e da momenti di drammatica meraviglia come la “The Last Chance Texaco” che chiude il podcast.
E anche per stavolta è tutto. Nel prossimo podcast che sarà online venerdi 21 aprile andremo a scovare nuove suggestioni in musica, così diverse stilisticamente e temporalmente ma così ugualmente coinvolgenti come la sinergia tra i Sunn O))) e Scott Walker, The Pop Group o i PIL di Metal Box. Intanto potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, anche scrivere critiche (perché no), o proporre nuove storie musicali, mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Vi do quindi appuntamento a tra due settimane, con un nuovo podcast da scaricare e nuove storie da raccontare, ma non mancate di tornare ogni giorno su RadioRock.to The Original. Troverete un podcast diverso al giorno, le nostre news, le rubriche di approfondimento, il blog e molte novità come lo split-pod. Siamo anche quasi in dirittura di arrivo per quanto riguarda l’atteso restyling del sito, e per questo (e molto altro) un grazie speciale va a Franz Andreani, che ci parla dei cambiamenti della nostra pod-radio e della radio in generale nel suo articolo per il nostro blog. Tutte le novità le trovate aggiornate in tempo reale sulla nostra pagina Facebook.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della stessa PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. PISSED JEANS: Love Without Emotion da ‘Why Love Now’ (Sub Pop – 2017)
02. PELL MELL: Butterfly Effect da ‘Interstate’ (Geffen – 1995)
03. PONTIAK: Easy Does It da ‘Dialectic Of Ignorance’ (Thrill Jockey – 2017)
04. THE WHO: Christmas / Cousin Kevin da ‘Tommy’ (Track Record – 1969)
05. THE KINKS: Mr. Churchill Says da ‘Arthur’ (Pye Records – 1969)
06. THE PRETTY THINGS: Balloon Burning da ‘S.F. Sorrow’ (Columbia – 1968)
07. 2HURT: Find My Way Back Home da ‘Live Another Dope’ (Lostunes Records – 2015)
08. MORPHINE: Buena da ‘Cure For Pain’ (Rykodisc – 1993)
09. MARK EITZEL: In My Role As Professional Singer And Ham da ‘Hey Mr Ferryman’ (Decor Records – 2017)
10. ABOUT GROUP: Don’t Worry da ‘Start & Complete’ (Domino – 2011)
11. GAZ COOMBES: To The Wire da ‘Matador’ (Hot Fruit Recordings – 2015)
12. SMOG: Chosen One da ‘Julius Caesar’ (Drag City – 1993)
13. ERIC CHENAUX: Have I Lost My Eyes? da ‘Skullsplitter’ (Constellation – 2015)
14. RICKIE LEE JONES: The Last Chance Texaco da ‘Rickie Lee Jones’ (Warner Bros. – 1979)