Quando Sharon Jones ha vinto la sua prima (e purtroppo non ultima) battaglia con il cancro al pancreas circa due anni fa, sembrava la giusta conclusione dell’ennesima disavventura capitata nel corso di una vita difficile. La Jones aveva lavorato duramente per decenni, integrando concerti della sua band ai matrimoni e sessioni di registrazione a vari turni di lavoro come ufficiale carcerario a Rikers Island e come guardia di sicurezza della banca Wells Fargo. Aveva 40 anni quando è venuta per la prima volta nel 1996 a contatto con il revivalista soul di stanza a Brooklyn Gabriel Roth, e dopo anni di tiepida accoglienza da parte dell’industria musicale per essere, come lei stessa ha ricordato nel documentario uscito quest’anno intitolato ‘Miss Sharon Jones!’ “Troppo bassa, troppo grassa, troppo nera e troppo vecchia”, Roth è stato alla fine l’entusiasta acquirente della splendida “merce” che stava vendendo la Jones.
Quando Roth ha lanciato la Daptone Records nel 2002, dopo diversi anni di lavoro con la Jones su vari progetti di retro-R & B per etichette come la francese Pure Records e per la Desco (etichetta predecessore della Daptone), Sharon è stata la sua colonna portante. Il suo debutto con i Dap Kings, la band con cui Roth ritornava prepotentemente a rivivere il passato soul, ‘Dap-Dippin with Sharon Jones & The Dap-Kings’, è stato anche il primo disco pubblicato dall’etichetta di Brooklyn: quello contrassegnato dalla sigla DAP-001. La voce di Sharon Jones era ben tirata a lucido dall’esperienza, grintosa con convinzione e forza. Lei e il suo fantastico e potente gruppo piano piano riescono a raggiungere palchi sempre più grandi, suonano in grandi Festival e ottengono la loro prima nomination ai Grammy.
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Non solo grande musica, ma anche la classica grande storia americana, il trionfo avvenuto quando ormai aveva raggiunto la cosiddetta mezza età, contro ogni previsione, dove talento e spirito sono stati premiati senza ricorrere ad alcun inganno. Una meritata ascesa, forse dal sapore ancora più dolce proprio perché avvenuta così tardi. Poi nel settembre 2015, il cancro, vigliacco, si ripresenta. Sharon Jones finalmente ha avuto tutto quello che meritava a 40 anni, ma ha dovuto soccombere alla sua malattia a 60. In sostanza, è riuscita a vivere solo la parte centrale della carriera sotto i riflettori. Che marea di stronzate.
Ma la Jones, che nella vita aveva combattuto molte battaglie e aveva sempre vinto, è sempre stata troppo forte e ha sempre avuto un cuore troppo grande per lasciarsi andare. Ha trascorso l’ultimo anno della sua vita alternando le cure ai tour, mostrando sul palco la stessa feroce determinazione e intensità di sempre. On stage, lei era una forza magnetica di pura vita, piena di sangue e sudore, un’esplosione di urla e scuotimenti, capace di conquistare e a far cadere ai suoi piedi anche l’audience indie-rock più indifferente e fredda.
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Jones (e la Daptone) erano al centro esatto dei riflettori di questa nuova popolarità che nel nuovo millennio ha avuto sia la vintage e calda musica soul che la ritmica palpitante del funk. Alcuni artisti che hanno accresciuto la loro popolarità con il soul revival, come la stessa Jones ed il suo compagno di etichetta alla Daptone Charles Bradley (anche lui arrivato alla popolarità molto tardi e purtroppo anche lui colpito recentemente da un brutto male), hanno rivissuto il loro passato. Il loro non è mai stato un revival, ma la loro vera essenza, la loro realtà, ed è stato questo a conquistare e a fare tutta la differenza del mondo. Altri, come Black Joe Lewis and the Honeybears, St. Paul and the Broken Bones, Eli “Paperboy” Reed, Alabama Shakes, Mayer Hawthorne, Leon Bridges, e altri, hanno semplicemente sfogliato le pagine dei propri libri di storia e cercato di riviverli con accordi scivolosi di organo Hammond, intense sezioni di fiati, grooves che non fanno rimanere fermi, acuti gospel, e dolci ballate piene di desiderio. Era musica per ballare in fondo, ed è riuscito a riempire di nuovo le sale dedite al rock’n’roll dancefloor. Il suono di Sharon Jones & The Dap-Kings è diventato talmente popolare che Amy Winehouse, per la registrazione del suo fortunatissimo e (purtroppo) ultimo album ‘Back To Black’, ha voluto proprio i Dap-Kings come backing band. ben sei delle undici tracce dell’album vedono protagonisti alcuni membri dei Dap-Kings, mentre due delle canzoni più note, “Rehab” e “You Know I’m No Good”, vedono suonare i Dap-Kings al completo.
“I think it would be safe to say that Sharon Jones helped bring an entire generation into soul music”
La morte di Sharon Jones è l’ultima di una serie di perdite che ha reso il 2016, a questo punto, quasi crudele per noi amanti della musica. Forse troviamo tutto così inaccettabile semplicemente perché non vogliamo ammettere che anche i nostri eroi invecchiano. Due artisti che l’hanno preceduta nella loro partenza verso l’aldilà, David Bowie e Leonard Cohen, si sono lasciati alle spalle poco prima di morire delle opere finali che sembrano quasi essere dei monumenti commemorativi della loro arte. Anche la Jones sapeva che il suo tempo rimasto sarebbe potuto essere breve; ha viaggiato con lo spettro della morte al suo fianco per quasi quattro anni. Ha avuto il tempo di sapere, forse accettando l’idea di morire, perfino pensando che la fine sarebbe potuta arrivare prima del previsto. E a modo suo, continuando a salire sul palco e dare il meglio di se, muovendo a ritmo i suoi piedi in maniera forsennata, ha passato la parte finale della sua carriera entrando in contatto in qualche modo con la morte, e chiedendo alla morte stessa se poteva sedersi solo per un minuto, così avrebbe potuto chiedere a tutti noi di ballare per un’ultima volta. ‘Give The People What They Want’ è il titolo del suo ultimo album in studio, e lei lo ha fatto, sempre. Ciao Sharon, e grazie di cuore.
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