Baltimore, Maryland: è in questa cittadina di provincia che nel 1999 si incrociano le strade di Noah Lennox (aka Panda Bear) e David Portner (aka Avey Tare), uniti da una comune passione per i film horror e per la musica psichedelica ed un sano entusiasmo prodotto dall’ascolto della melodia più pura e degli intrecci vocali.
Poco dopo si unisce a loro Brian Weitz (aka Geologist), e il trio iniziò di fatto i propri esperimenti tra elettronica, psichedelia e folk, ma ancora con una scrittura ingenua da ragazzini di provincia imbottiti di marshmallow che iniziano a fare i primi esperimenti con l’LSD. Con l’aggiunta di Josh Dibb (aka Deakin) la scrittura dei quattro diventa sempre più matura, e dopo tre album pubblicati a vario titolo, nel 2003 arriva il primo vero album del gruppo a nome Animal Collective. “Here Comes the Indian” fa breccia immediatamente nei cuori di chi ama una musica colorata, primitiva, percussiva, venata di un’ingenua psichedelia pop. Le linee guida ormai sono state tracciate e anche le uscite al di fuori del gruppo si dimostrano all’altezza della situazione come dimostra il successo di “Person Pitch” del solo Panda Bear. Nel 2009, l’uscita di “Merriweather Post Pavilion” fa letteralmente impennare alle stelle le azioni della band, le chitarre acustiche e l’afflato folk svaniscono inghiottiti da una pastosa contaminazione elettronica che traccia le linee di una nuova concezione di psichedelia parallela a quella dei Flaming Lips.
Ormai maestri del nuovo pop psichedelico, i quattro proseguono spediti sia insieme che separatamente come dimostra l’ottimo riscontro delle carriere soliste di Avey Tare e Panda Bear. L’ultimo album della band, “Centipede Hz”, aveva visto il ritorno di Deakin ma non aveva lasciato dietro di sé momenti memorabili. Mi sono quindi messo all’ascolto del nuovo “Painting With“, leggermente dubbioso sul momento della parabola artistica del gruppo. Deakin ha lasciato di nuovo momentaneamente il collettivo lasciando a Panda Bear, Geologist e Avey Tare il compito di stupire di nuovo.
Vediamo che succede mettendo la puntina sul primo solco… “FloriDada” non potrebbe esprimere meglio l’artwork della copertina. Appena parte il brano è come se esplodessero dei barattoli di vernice colorata addosso ai tre, che iniziano a sguazzarci felici, rincorrendoci per sporcarci e iniziando a costruire la loro caleidoscopica giostra dove monta anche l’ospite Colin Stetson con il suo sassofono. Scordatevi gli strumenti acustici, una volta messo in moto l’ottovolante veniamo sballottati da una forza centrifuga fatta da ritmi costanti, gioiosi, con i tre che si sovrappongono e si superano in una fanciullesca corsa a perdifiato. Con ‘Hocus Pocus’ si rallentano un po’ i giri con un travestimento da Eno, ma strizzando sempre l’occhio al ritornello sintetico, ed il cameo della viola di John Cale non sembra affatto fuori luogo. ‘Vertical’ fa battere il piede a ritmi elevatissimi fino all’infiammazione del tendine tibiale, ma senza convincere appieno, ‘Lying In The Grass’ ci porta direttamente nella sala degli specchi di un circo ricoperti di coriandoli fluorescenti, con le voci che si rincorrono tra un barrire di sax ed una moltitudine di battiti elettronici. ‘The Burglars’ spinge forte il piede sull’acceleratore con i contrappunti vocali che si inseguono a velocità siderale, confondendosi e moltiplicandosi, mentre ‘Natural Selection’ è uno sghembo e mutante techno-pop da ballare.
La seconda facciata si apre con i tocchi di ‘Bagels In Kiev’, una fontana che continua a zampillare colori e pulsioni sintetiche fino allo stordimento. ‘On Delay’ è forse la traccia riuscita meglio, il ritmo non è ossessivo e sembra riprendere quasi una sorta di motorik mutante, il suono è pieno, colorato, la sontuosa melodia è in perfetto equilibrio con l’elettronica psicotica, lasciando il piano ed il synth ad annegare allegramente nel tessuto sintetico che i tre padroneggiano ormai alla perfezione. L’ispirazione fanciullesca del collettivo viene fuori con le ciondolanti filastrocche di ‘Spilling Guts’ (breve e cadenzata), ‘Summing The Wetch’ (danza gommosa per robot che non conoscono le leggi di Asimov), e ‘Golden Gal’ (che ondeggia molto Beach Boys) per poi confluire nel gran finale di ‘Recycling’, che con un tripudio di carillon festosi ci invita a restare in questo magico Luna Park dove comandano il caos dei colori e i raggi psichedelici.
Tirando le somme l’album non ha saputo coinvolgermi come “Merriweather Post Pavilion”, ma sono comunque tornato con il sorriso alla cassa per poter fare un altro giro su questo colorato rollercoaster. Farsi sballottare da questa festosa allucinazione sintetica, e vedere la propria immagine deformata, divertita e colorata vale davvero il prezzo del biglietto.