Ecco il decimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
Nella seconda avventura in musica del 2025 troverete la prima parte della mia personalissima Playlist 2024
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo decimo episodio stagionale iniziamo a scoprire la mia personalissima Playlist 2024. Nelle posizioni dalla #30 alla #16 troverete molte suggestioni diverse: dal songwriting tra folk ed eleganza di Beth Gibbons, Caroline Shaw insieme a Sō Percussion, Bill Ryder-Jones e Peter Perrett all’ultimo disco degli Shellac ricordando Steve Albini. Dal post-rock dirompente dei English Teacher a quello venato di folk dei Tapir! per arrivare alla conferma degli straordinari Moin. La conferma della statura degli Arab Strap e della potenza dei Pissed Jeans, l’americana a 360° della The J. & F. Band, l’elettronica profonda tra industrial e dub di The Bug, la meditazione in musica di Whitney Johnson, la sperimentazione percussiva di Jim White per finire con un gruppo epico capace di schierarsi apertamente anche dal punto di vista politico come i Godspeed You! Black Emperor. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Eccoci arrivati al momento amato e temuto allo stesso tempo, quello della classifica dell’anno appena concluso. Un anno in musica che è stato segnato dalla scomparsa improvvisa a soli 61 anni di Steve Albini. Una botta che ha lasciato un vuoto gigantesco per tutti gli amanti del rock alternativo. Albini è stato personaggio fondamentale sia come musicista che dietro alla consolle in veste di produttore, anche se non amava definirsi così, visto che riteneva che l’uomo dietro al mixer non dovesse influenzare il lavoro creativo degli artisti. Albini, di chiara origine italiana, aveva iniziato nel 1981 a creare il suo suono tanto claustrofobico quanto dirompente con i Big Black, per continuare qualche anno più tardi con i Rapeman. Dopo lo scioglimento di questi ultimi, Albini nel 1989 decise di protestare platealmente contro l’industria discografica delle major, colpevole, secondo lui, di ingannare e sfruttare finanziariamente i propri artisti.
Pur bloccandosi come musicista per qualche anno, non aveva mai smesso di regalare il suo tocco abrasivo a moltissimi artisti che lo avevano ingaggiato come sound engineer. È quasi impossibile quantificare il suo impatto sulla musica underground come musicista e come produttore: un uomo che ha messo il suo marchio inconfondibile su una lista infinita di dischi che amiamo, grande esempio di indipendenza e una delle menti più lucide in circolazione. Quando però ha deciso di tornare nelle vesti di musicista lo ha fatto in grande stile, con un nuovo gruppo, gli Shellac, ed un album come At Action Park. Paradossalmente, il gruppo aveva annunciato l’uscita di un nuovo album dopo dieci anni di silenzio. Il sesto disco del gruppo di Chicago è stato pubblicato pochi giorni dopo la scomparsa di Albini. To All Trains mostra la solita solida impalcatura che ce li ha fatti amare, e seppure non sia un album sorprendente, mi sembrava giusto inserirlo in classifica e iniziare il podcast con l’esplosiva “Tattoos”.
Saliamo al numero 29 per trovare una cantante tanto conosciuta quanto sempre lontana dalla luce dei riflettori. Interviste? Si contano sulle dita di una mano. Foto? Quasi sempre fuori fuoco. Ma la sua voce…beh, quella è indimenticabile per aver marchiato a fuoco la scena di Bristol ad inizio anni ’90 con i Portishead. Carriera iniziata relativamente tardi e centellinata con cura quella di Beth Gibbons, tra alcune memorabili collaborazioni ed un disco pubblicato ben 22 anni fa (incredibile pensare a quanto passa in fretta il tempo) in coabitazione con Paul Webb aka Rustin Man intitolato Out Of Season. Sei anni dopo, il ritorno a sorpresa dei Portishead, ma dopo, di nuovo, il silenzio, interrotto solo da alcune colonne sonore, la collaborazione con Kendrick Lamar e un contratto, nel 2013, con la Domino.
Undici anni dopo, ecco uscire il suo vero debutto solista intitolato Lives Outgrown, un album atteso non solo da chi spera ancora in una riunione con Geoff Barrow e Adrian Utley, ma anche da tutti quelli che con la sua voce ha fatto volare in posti lontani. Prodotto dalla stessa Gibbons insieme a James Ford e ad un altro ex Talk Talk come Lee Harris, il disco è naturalmente lontano dai suoni della sua vecchia sigla, andando ad approfondire dinamiche di folk scuro sicuramente ispirato dalla campagna di Devon dove vive ormai da tempo. Un album fuori dal tempo come dimostra la “Whispering Love” che potete ascoltare nel podcast.
Fa un po’ ridere pensare che gli Only Ones siano riusciti ad ottenere un clamoroso successo solo nel 2006 quando la loro canzone più famosa, “Another Girl, Another Planet” è stata utilizzata per una campagna pubblicitaria della Vodafone. In realtà, il successo “postumo” è stato così forte da convincere Peter Perrett (che aveva formato la band a Londra nell’agosto del 1976) a riunire il suo vecchio gruppo, sciolto ufficialmente nel 1982) per un tour britannico di grande successo. Il songwriting di Perrett è sempre stato notevole, ma allo stesso tempo l’artista non ha mai avuto una vita semplice e lineare, segnata da una serie di vicissitudini personali, tra cui dipendenze, difficoltà familiari e un lungo periodo di assenza dalle scene.
La sua personale rinascita, iniziata nel 2017 con il suo primo album solista How The West Was Won e confermata due anni più tardi con Humanworld, si è sublimata nel 2024 con il nuovo The Cleansing, una purificazione di nome e di fatto che ci ha consegnato il settantaduenne londinese in una nuova e splendida forma. La carica e la spavalderia di chi è riuscito a fuggire dai tentacoli della dipendenza, anche dopo aver scoperto quasi casualmente di avere una grave osteoporosi, il tutto abbinato alla sua capacità consueta di scrivere testi mai banali e di grandi canzoni come la “Feast For Sore Eyes” inserita in scaletta. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che The Cleansing potesse apparire in molte classifiche di fine anno e così è stato, compresa la mia, dove occupa la 28° posizione.
Il podcast prosegue con la posizione numero 27, dove troviamo un gruppo che viene da Leeds, città che ha dato i natali a moltissime bands fondamentali del passato come, ad esempio, Gang Of Four. La cantante Lily Fontaine, il chitarrista Lewis Whiting, il batterista Douglas Frost, e il bassista Nicholas Eden si sono conosciuti al conservatorio della città britannica dando vita ad un progetto dream-pop chiamato Frank che avrà vita breve. La rinascita affidata alla ragione sociale di English Teacher invece ha avuto molto più successo, visto il loro talento compositivo e l’appartenenza (molto più di facciata che reale) ad una scena post-punk britannica che li ha visti essere immersi in un calderone da cui, fortunatamente, riescono ad emergere.
Eh sì, perché dalla loro parte c’è una sana sfacciataggine sotto forma di ritornelli che entrano facilmente in testa per uscirne a fatica uniti ad una certa complessità strutturale. Dopo che due anni fa l’EP Polyawkward aveva avuto un notevole riscontro, era molta l’attesa per l’esordio sulla lunga distanza, con un’affermata producer come Marta Salogni dietro al mixer. E This Could Be Texas non ha certo deluso le aspettative. Sono molti gli spunti dietro alle 13 tracce di cui è composto il disco, un po’ di art-pop, sprazzi di prog che si fermano in tempo prima di diventare stucchevoli, momenti più oscuri e aperture melodiche. Tutto miracolosamente si regge in piedi portando il loro esordio alla posizione 27 della mia classifica. Ascoltate la travolgente “The World’s Biggest Paving Slab” per credere.,
Era il 1998 quando la pubblicazione di Philophobia, secondo album degli Arab Strap, gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese era formato da canzoni malinconiche che parlavano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998 e lo scioglimento del sodalizio scozzese risale al 2006. Era con la loro tipica ironia che annunciavano il loro ritiro dalle scene come duo con una compilation intitolata Ten Years Of Tears, con i due immortalati in copertina con faccia imbronciata sui lati opposti di un tavolo in una sala dove si era celebrata la loro festa di addio (con un eloquente striscione “Enjoy Your Retirement”).
Nonostante i dischi solisti dei due ci abbiano regalato più di qualche gioia (soprattutto i progetti solisti di Moffat a nome Nyx Nótt) ci mancava quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. La notizia del ritorno del duo nel 2016 ci aveva scaldato il cuore, ma, come sempre avviene sulle reunion dei gruppi che abbiamo amato molto, poi è subentrata la paura. Il timore della delusione, di non ritrovare gli stessi Moffat-Middleton. Ma nel 2021 già dalle prime note diAs Days Get Dark si era capito che quella paura era infondata. Nel corso del 2024 i due sono tornati con un nuovo lavoro intitolato I’m Totally Fine With It 👍 Don’t Give A Fuck Anymore 👍 che troviamo al #26 dove ancora una volta dietro ad arrangiamenti perfetti e raffinati troviamo quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. La scura “Strawberry Moon” è l’ennesimo esempio di come il duo riesca ancora ad entrare emotivamente sottopelle.
Ad occupare la posizione #25 troviamo un gruppo formato da musicisti statunitensi ed italiani capace di mettere insieme le anime della musica a stelle e strisce in maniera fantastica ed irrefrenabile. E’ tornata la straordinaria The J. & F. Band capitanata da uno dei fondatori della Allman Brothers Band, il batterista Jaimoe Johanson, insieme al bassista Joe Fonda. Il nuovo viaggio musicale intrapreso dalla band con ★ Star Motel ★: An American Music Experience spazia dal blues di Chicago del Nord-Est, con la Route 66, al funk del profondo Sud, andando verso Ovest fino a L.A. passando per Nogales, in Arizona, per incontrare il fantasma di Mingus e le sue visioni, per tornare attraverso le Grandi Pianure dove il Rez è lo stile di vita di molti.
Per finire dove tutto è iniziato, nel Sud-Est del paese e delle vibrazioni funky. Ad accompagnare i due titolari della sigla ci sono Tiziano Tononi alla batteria, Paolo Durante al piano, hammond, synth e mellotron, David Grissom e Craig Green alle chitarre, Jon Irabagon al sax tenore, Emanuele Parrini al violino e Bobby Lee Rodgers a voce e chitarra. Una super band capace di divertirsi con un doppio album (primo di canzoni, il secondo di jam sessions strumentali) sempre perfettamente calibrato e messo a fuoco, grazie anche alla bravura del produttore Fabrizio Perissinotto e alla alla passione di un’etichetta straordinaria come la milanese Long Song Records. Un album che non dovrebbe mancare nella collezione di un’amante della musica americana. Se non credete alle mie parole ascoltate la trascinante “Star Motel” inserita nel podcast.
Il podcast prosegue salendo di una posizione. Al #24 troviamo un album che sono riuscito ad ascoltare quasi in chiusura di classifica, costringendomi a modificarla. Caroline Shaw è una compositrice classica e violinista, capace di diventare la più giovane vincitrice del Premio Pulitzer per la musica nel 2013. Nel 2020 ha iniziato una proficua collaborazione con il quartetto Sō Percussion, composto da Jason Treuting, Adam Sliwinski, Josh Quillen ed Eric Cha-Beach, capace di ridefinire il suono da camera in questo 21° secolo con il loro straordinario talento ed interplay. Il disco che aveva dato il via alla loro collaborazione, Narrow Sea, pubblicato anche insieme a Dawn Upshaw e Gilbert Kalish era stato addirittura capace di vincere un Grammy nel 2020.
Un anno più tardi la Shaw ed il quartetto hanno fatto uscire il loro primo album Let The Soil Play Its Simple Part ed il tour seguente, interrotto dalla pandemia, gli ha permesso di perfezionare il loro modo di lavorare insieme mescolando il songwriting classico della Shaw con le nuove modalità espressive del quartetto. Rectangles and Circumstance, uscito a giugno 2024, è un album splendido tra un cantautorato rigoroso ma mai freddo, riscaldato dalla splendida voce della Shaw, e gli arabeschi sonori creati dal quartetto. I testi, ispirati un gruppo di poesie del diciannovesimo secolo hanno modellato la loro modalità espressiva, come nella bellissima “Silently Invisibly” inserita nel podcast.
Continuiamo il podcast trovando al #23 della mia personalissima classifica un collettivo inglese che ha esordito proprio nel 2024 portando il proprio esordio sugli scaffali dei negozi di dischi fisici e virtuali. “From atop a green hill, The Pilgrim did hear a call from the distance. Their people are near. Towards the tall mound The Pilgrim must set, carrying only this sack, into the Nether…”. Così inizia il primo atto dell’album di debutto dei Tapir!, The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain, un disco multiforme che deve tanto all’arte popolare e al folklore quanto alla sperimentazione alt-folk. I sei elementi provengono dalla comunità artistica della George Tavern, nel Sud di Londra: Ike Gray (voce, chitarra), Will McCrossan (tastiere, batteria), Tom Rogers-Coltman (chitarra, sassofono), Ronnie Longfellow (basso), Emily Hubbard (cornetta, synth) e Wilf Cartwright (batteria, violoncello), aiutati alla produzione da Yuri Shibuichi, batterista di un altro gruppo londinese molto interesssante, gli Honeyglaze.
Si descrivono come un miscuglio di diversi ambiti: allo stesso tempo musicale, teatrale, mitologico, artistico, collaborativo, narrativo e, soprattutto, qualcosa da assaporare e condividere. Il disco racconta la storia di un viaggiatore solitario, un’ambigua creatura rossa nota come The Pilgrim, in viaggio attraverso un paesaggio mitico di foreste inquietanti, mari in tempesta e montagne infernali popolate da bestie, uccelli feriti e spettri idealizzati. Il quadro potrebbe risultare stucchevole nel suo essere troppo naif, ma i sei riescono a coinvolgere l’ascoltatore facendolo fuggire dagli orpelli del mondo materiale moderno, mostrando una sorta di paese delle meraviglie pre-industriale e pre-internet dove la creatività e la comunità regnano sovrane. Il disco risulta emozionante con momenti di grande bellezza, come nella “Mountain Song” che chiude il viaggio del pellegrino, il disco ed il podcast.
“Credo che nel corso degli anni la mia musica abbia perso un po’ di speranza. Era importante per me fare un disco che avesse più consapevolezza e prospettiva. Anche per i miei standard, gli ultimi anni sono stati duri, ma ho scelto di fare da colonna sonora con una musica più positiva. Amo questo album. Non ero così orgoglioso di un disco da tanti anni”. Così l’ex The Coral Bill Ryder-Jones ha parlato di Iechyd Da (“buona salute” in gallese) il suo nuovo album solista arrivato dopo cinque anni di silenzio. In realtà in questi anni il musicista inglese non è stato certamente con le mani in mano, avendo prodotto nei suoi Yawn Studios di West Kirby, nel Merseyside artisti del calibro di Michael Head, Saint Saviour e Brooke Bentham.
Il nuovo album, che troviamo al #22, è probabilmente il più ambizioso della carriera di Ryder-Jones, rifinito con la consapevolezza del produttore ormai navigato e ricco di contenuti diversi, gioiosi e intimisti, raffinati e ricchi di romanticismo. Un disco coccolato e rifinito negli ultimi tre anni, dove nulla è lasciato al caso. La copertina dell’album raffigura il dipinto di una casa rosa pastello illuminata dalla luna nel villaggio di pescatori scozzese di Crail. “Quel quadro era troppo bello, mi ricordava la sicurezza di una casa. Voglio che questo disco possa essere considerato come una casa accogliente, dove la gente possa venire e sentirsi al sicuro, come lo sono per me i miei dischi preferiti”. Ascoltando la meravigliosa “Christinha” direi che l’obiettivo del musicista inglese è stato sicuramente centrato.
Per scoprire il #21 della mia Playlist 2024 cambiamo completamente direttrici sonore andando a parlare di uno dei più devastanti produttori e musicisti di elettronica, attivo da moltissimi anni con progetti sempre estremamente riusciti. Il britannico Kevin Martin ha iniziato a interessarsi alla musica da adolescente, attratto dalla visione sonora dei Joy Division, dei Sex Pistols, di Captain Beefheart, dei Birthday Party e dei Throbbing Gristle. Ha descritto il suo interesse iniziale per la musica come derivante dalla sua difficile situazione familiare durante l’infanzia, aggiungendo: “la musica post-punk faceva a pezzi i libri delle regole e metteva in discussione tutto, in particolare la struttura in termini di musica, arte, politica”. Attratto dall’estetica DIY ha iniziato a lavorare con un registratore a quattro tracce e un pedale per gli effetti.
Tantissimi i suoi progetti, da quelli con Justin Broadrick chitarrista dei Godflesh (GOD, Ice) a quello ascoltato nello scorso podcast chiamato King Midas Sound insieme al poeta-songwriter Roger Robinson fino a quello probabilmente più conosciuto, ovverosia The Bug. E proprio con questa ragione sociale Martin ha pubblicato un doppio album devastante, profondo come Machines I-V, dove per la prima volta rinuncia a collaborazioni e voci per fare tutto da solo, scavando nelle profondità del dub e rielaborando i detriti per portarli alla luce più sporchi e profondi che mai. Il disco, non a caso, è stato pubblicato da un’etichetta dedita al metal come la Relapse e se avete ancora dubbi, toglieteveli ascoltando l’apocalittica “Battered (Curse Of Addiction)”.
Due anni dopo l’uscita dell’ apprezzato secondo album Paste, ecco tornare in grandissima forma e posizionarsi al #20 i Moin. La band formata da Joe Andrews e Tom Halstead dei Raime ha trovato la perfetta quadratura del cerchio con l’ingresso della straordinaria Valentina Magaletti (Tomaga, Vanishing Twin, Holy Tongue) dietro i tamburi. You Never End attinge influenze, come il suo predecessore, da parecchia musica alternativa per chitarra del passato (soprattutto degli anni 90) nelle sue molteplici forme, dal post-rock, al post-punk ad un hardcore evoluto, utilizzando manipolazioni elettroniche e tecniche di campionamento per ridefinirne il contesto, senza fissarsi su un unico stile ma muovendosi attraverso di esso alla ricerca di nuove connessioni.
Esplorando queste relazioni, il trio riesce ad offrire una sorta di collage di conosciuto e sconosciuto, punteggiato da testi che stavolta vengono interpretati da interessanti collaborazioni vocali. Tensioni portate al limite dell’implosione, una continua ricerca sonora che porta alla ricerca di un linguaggio nuovo pur con le basi ben salde su un universo stilistico che è quello, ben identificabile, del post-rock anni ’90, più Louisville che Chicago. Una riproposizione mai pedissequa ma in continua mutazione che ha portato il gruppo ad esplorare stavolta un lato più accessibile e, se vogliamo, quasi sentimentale come nella splendida “Lift You” inserita nel podcast ed interpretata da una Sophia Al-Maria in gran forma.
Da più di un decennio Whitney Johnson attraversa la scena musicale underground di Chicago. Nata come musicista classica, è stata attratta presto dal punk e dalla psichedelia, andando a collaborare con moltissime realtà sia rock e psichedeliche (Ryley Walker, Bitchin Bajas, Oozing Wound, Circuit Des Yeux) che sperimentali (Verma, Simulation, Damiana). Ha lavorato con minimalisti come La Monte Young e Marian Zazeela e parallelamente alla musica ha intrapreso un cammino di impegno universitario e sociale che l’ha portata a gestire programmi di alfabetizzazione, lavorare con rifugiati e a prendere un master in politica culturale e un dottorato in sociologia. Due anni fa ero rimasto colpito dal suo album a nome Matchess intitolato Sonescent, un disco onirico e bellissimo, in cui sogno e ricordo, mente e corpo si univano in un flusso ininterrotto di enorme bellezza rigeneratrice.
Nel 2024 la Johnson è tornata a far sentire la propria voce con due nuovi lavori usciti in contemporanea e ispirati da un viaggio del 2021 quando Whitney faceva ricerche sul Culto di Ermafrodito e visitava tutti i siti disponibili dell’attività del culto a Cipro e in Grecia. Durante gli spostamenti ha letto per la prima volta Frankenstein di Shelley, ha raccolto materiale dai siti tramite filmati VHS, foto da 35 mm e vari field recordings. Nell’autunno del 2023, grazie a una sovvenzione del DCASE di Chicago, Whitney è tornata in Svezia per terminare entrambi i dischi: Hav (che troviamo al #19) pubblicato a suo nome e Stena (uscito solo su cassetta) a nome Matchess. “Penso al suono/musica come a qualcosa che accade nel mio corpo piuttosto che a qualcosa che può essere spiegato a parole”, e ancora una volta è riuscita a creare un mondo coinvolgente e meditativo. Ascoltate la “Vari” inserita nel podcast se non mi credete.
Era molto atteso il ritorno delle eterne promesse del noise/hardcore Pissed Jeans. Sono passati ben sette anni dal loro quinto disco intitolato Why Love Now che li aveva consacrati ai livelli più alti. L’album, co-prodotto dalla regina della no wave Lydia Lunch, era una continua e mastodontica esplosione: dodici tracce che mostravano una rabbia controllata a stento e convogliata nei giusti binari dalla voce di un sempre più convincente Matt Korvette. Tanti i momenti immediati e coinvolgenti di un disco (e di un gruppo) che aveva stupito una volta di più per potenza muscolare, autoironia e scrittura raffinata. Una rabbia e un’urgenza che trova sfogo in una scoppiettante scrittura condita da testi cinici ed irriverenti, che va dritta al punto senza troppi fronzoli.
Da Allentown, Pennsylvania, Matt Korvette insieme ai suoi compagni di avventura Bradley Fry (chitarra), Randy Huth (basso) e Sean McGuinness (batteria) si sono rimessi in moto trovando i loro meccanismi ben oliati e pubblicando Half Divorced, un album tanto breve (12 tracce per 30 minuti in totale), quanto devastante nel suo incedere punk hardcore che comprende anche la cover di “Monsters” dei Pink Lincolns. Il feroce cinismo di Korvette e compagni non fa sconti a nessuno esprimendo “la tensione tra l’ottimismo giovanile e la deprimente realtà dell’età adulta”. Un disco da ascoltare a volume alto e che non potevo non inserire nella mia classifica di fine anno, dove lo troviamo al #18. Come resistere poi a un brano come “Moving On”?
Dopo quest’alternanza di musica meditativa e potente, arriviamo al #17 della classifica, dove lasciamo sotto i riflettori il batterista dei Dirty Three: Jim White. Dopo le collaborazioni recenti con George Xylouris a nome Xylouris White e con la chitarrista Marisa Anderson, il batterista australiano, insieme al fido Guy Picciotto, si è chiuso negli studi di registrazione per mettere su nastro il suo primo album solista. Il disco, a scanso di equivoci, è tanto atipico quanto bello ed ispirato. All Hits: Memories è stato pubblicato il 29 marzo 2024, ed è un disco praticamente di sola batteria, a parte alcune macchie sonore messe a disposizione dalla lira di George Xylouris e dalle tastiere di Ben Boye. Ora, dimenticate i muscolari solo di batteria dei vari protagonisti del vagabondare tra tom, piatti e rullante.
Jim White, lo sapete se apprezzate i Dirty Three e le sue collaborazioni con Bill Callahan o Cat Power, è un batterista atipico, usa bacchette, spazzole e mallets come un pittore, evocando ricordi, tracciando storie sui tamburi, costruendo paesaggi tra tribalismo e jazz che sembrano quasi casuali ma casuali non sono mai. La bellezza dell’essenziale, un album che dura nemmeno 25 minuti e che, come dice Bill Callahan nel suo classico stile “libera il tempo, lo lascia giocare, lo lascia pascolare, lo lascia rammentare. Questo è un disco di pensieri, ricordi, interventi chirurgici. Un’operazione chirurgica abile di cui potresti non renderti nemmeno conto che sta accadendo mentre sta accadendo, ma che ti rimette in piedi quando è finita”. Non ci credete? Ascoltate uno dei brani migliori del disco come “Names Make The Name”.
Chiudiamo il podcast con la posizione #16 dove troviamo un gruppo molto amato da queste parti. Il collettivo di Montreal Godspeed You! Black Emperor, dopo qualche anno di pausa, è fortunatamente tornato ad incidere con frequenza quasi regolare. E in ogni lavoro in studio non viene mai a mancare il fascino ipnotico, epico, senza compromessi di una band che sin dall’indimenticabile esordio F#A#∞ del 1997 ha saputo trovare una formula unica composta da cavalcate eroiche che si innalzano al cielo come la bandiera che i GY!BE riescono a tenere sempre alta incuranti del vento che cambia. Il loro suono senza compromessi non cambia di una virgola, mantenendo sempre la stessa evocativa potenza. Ed è incredibile il fatto che un gruppo esclusivamente strumentale possa avere un impatto e un impegno sociale e politico così importante. E se il precedente G_d’s Pee At State’s End! aveva come (quasi) unico obiettivo il capitalismo, il nuovo album si intitola No Title as of 13 February 2024 28,340 Dead ed è un pugno nello stomaco, una ferita aperta che dovrebbe essere dolorosa per tutti, visto che il titolo si riferisce al numero segnalato di morti palestinesi a causa degli attacchi israeliani avvenuti tra il 7 ottobre 2023 e il 13 febbraio 2024 durante l’invasione israeliana di Gaza, secondo il ministero della Sanità di Gaza.
In una dichiarazione di annuncio dell’album, la band capitanata da Efrim Menuck ha proclamato: “LA PURA VERITÀ==ci siamo lasciati andare alla deriva, discutendo. Ogni giorno un nuovo crimine di guerra, ogni giorno un fiore che sboccia. Ci siamo seduti insieme e l’abbiamo scritto in una stanza, e poi ci siamo seduti in un’altra stanza a registrare. NESSUN TITOLO= quali gesti hanno senso mentre piccoli corpi muoiono? quale contesto? quale melodia spezzata? e poi un conteggio e una data per segnare un punto sulla linea, il processo negativo, il mucchio che cresce. il sole che tramonta sopra letti di cenere mentre eravamo seduti insieme a discutere. il vecchio ordine mondiale faceva a malapena finta di preoccuparsi. questo nuovo secolo sarà ancora più crudele. la guerra sta arrivando. Non arrendetevi. Scegliete una parte. Resistete. amore.” L’invito è quello di scegliere una parte dove stare e non starsene con le mani in mano, avvolti da una musica dolente ed eroica, con un invito a resistere, a reagire e ad amare. Una protesta senza bisogno di parole, ma basta la loro musica, profonda e mai banale, come nella “Grey Rubble – Green Shoots” che chiude il podcast lasciandoci attoniti a riflettere su questa carneficina che sembra non aver fine.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio scopriremo insieme le prime 15 posizioni della mia personalissima Playlist 2024.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SHELLAC: Tattoos da ‘To All Trains’ (2024 – Touch And Go)
02. BETH GIBBONS: Whispering Love da ‘Lives Outgrown’ (2024 – Domino)
03. PETER PERRETT: Feast For Sore Eyes da ‘The Cleansing’ (2024 – Domino)
04. ENGLISH TEACHER: The World’s Biggest Paving Slab da ‘This Could Be Texas’ (2024 – Island Records)
05. ARAB STRAP: Strawberry Moon da ‘I’m Totally Fine With It 👍 Don’t Give A Fuck Anymore 👍’ (2024 – Rock Action Records)
06. THE J. & F. BAND: Star Motel da ‘★ Star Motel ★: An American Music Experience’ (2024 – Long Song Records)
07. CAROLINE SHAW, SŌ PERCUSSION: Silently Invisibly da ‘Rectangles And Circumstance’ (2024 – Nonesuch)
08. TAPIR!: Mountain Song da ‘The Pilgrim, Their God and The King Of My Decrepit Mountain’ (2024 – Heavenly Recordings)
09. BILL RYDER-JONES: Christinha da ‘Iechyd Da’ (2024 – Domino)
10. THE BUG: Battered (Curse Of Addiction) da ‘Machines I-V’ (2024 – Relapse Records)
11. MOIN: Lift You (Feat. Sophia Al-Maria) da ‘You Never End’ (2024 – AD 93)
12. WHITNEY JOHNSON: Vari da ‘Hav’ (2024 – Drag City)
13. PISSED JEANS: Moving On da ‘Half Divorced’ (2024 – Sub Pop)
14. JIM WHITE: Names Make the Name da ‘All Hits: Memories’ (2024 – Drag City)
15. GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR: Grey Rubble — Green Shoots da ‘No Title As Of 13 February 2024 28,340 Dead’ (2024 – Constellation)
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SEASON 19 EPISODE 10: “Playlist 2024 – Part 1” [Podcast] Ecco il #podcast con la prima parte della mia #playlist del 2024 https://t.co/6rFBx7fVpQ via @SoundsGrooves
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) March 19, 2025