Ecco il nono podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
Nella prima avventura in musica del 2025 troverete un ricordo commosso di Paolo Benvegnù
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo nono episodio stagionale, sconvolto dalla scomparsa di un grande della musica italiana come Paolo Benvegnù, volevo aprire e chiudere proprio con il suo enorme talento, messo in mostra sia con gli Scisma che con il suo percorso solista. Ma non abbandoneremo l’Italia, perché troverete anche il genio di Andrea Guerrini in arte Arco, prima di tuffarci nel trascinante post-punk dei dublinesi Sprints e nelle cavalcate psichedeliche di Chris Forsyth. C’è spazio anche per ripescare un gruppo di valore assoluto come i Red Red Meat e, accantonando quello che sono diventati adesso, lasciarci trascinare dall’energia potente che animava gli U2 sul palco nei primi anni ’80. Troverete anche qualche album di rilievo usciti nell’anno che si è appena concluso, come l’interessante songwriting della basca Elena Setién, e quello più classico ma affascinante di un’ispirata Jessica Pratt. Ci sono anche le suggestioni cinematiche degli Yo La Tengo e un tuffo nel denso miscuglio tra hip-hop, psichedelia e ambient di due giganti del genere come cLOUDDEAD e King Midas Sound. prima del finale dedicato a Paolo, troverete il soul introspettivo di Marvin Gaye e il dialogo sonoro notturno e profono di tre grandi musicisti come Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Il podcast inizia in un modo che non avrei davvero mai voluto. Una di quelle notizie che ti lasciano sbigottito, incredulo. La sera prima addirittura era apparso in Rai insieme a Bollani, e nulla lasciava presagire quello che sarebbe successo. Un artista sensibile e profondo Paolo Benvegnù, uno di quelli che lasciano un segno profondo in tutti quelli che hanno avuto la fortuna di incontrarlo. Uno di quegli cantautori che non cercano il successo, e per quello (oltre che per il suo talento) sono riusciti ad ottenere il privilegio dell’amore di un seguito magari non oceanico ma sincero ed appassionato. Un percorso interrotto proprio sul più bello, quando ormai sembrava che Paolo potesse uscire dalla sua piccola ma dorata bolla anche grazie alla vittoria (finalmente) della Targa Tenco.
Gli Scisma sono nati nel 1993, arrivando all’esordio discografico quattro anni più tardi con un disco intitolato Rosemary Plexiglas, pubblicato dalla EMI e prodotto da Manuel Agnelli. La formazione comprendeva Paolo Benvegnù alla voce e alla Chitarra, Michela Manfroi al pianoforte, alle tastiere, Giorgia Poli al basso elettrico, Diego De Marco alle chitarre, Danilo Gallo alla batteria e Sara Mazo alla voce e chitarra. Un disco che ebbe un discreto successo in un underground italiano che faceva sentire alta la propria voce grazie a gruppi come Afterhours, La Crus o Marlene Kuntz. La title track è esplicativa di un gruppo già maturo e affiatato con l’alternaznza delle voci di Benvegnù e della Mazo. Si scioglieranno nel 200 salvo una piccole reunion nel 2014.

Restiamo in Italia e lo facciamo con l’aretino Andrea Guerrini, autore e polistrumentista autodidatta tanto ambizioso quanto insicuro ed irrequieto, di cui nel 2020 avevo raccontato entusiasta l’esordio discografico. Andrea è stato membro attivo dei Walden Waltz ma la sua forza espressiva si è diretta anche verso altre forme d’arte: dalla creazione ad Arezzo di un collettivo artistico che si occupa di spettacoli teatrali, fino alla produzione a Torino di una serie di audio racconti per una radio locale passando per la pubblicazione di un libro su uno dei suoi idoli musicali, Robert Wyatt. Proprio l’infantile capacità del sommo esponente della scena di Canterbury, unita alla sperimentazione mai fine a se stessa e al contrasto tra un uomo solo e la società opprimente e conflittuale hanno portato Andrea tre anni fa a “nascondersi” dietro al moniker di Arco per tirare fuori uno dei lavori più intelligenti e creativi usciti in Italia negli ultimi tempi.
Come nel convincente esordio, anche per Orama, il suo atteso seguito, Guerrini ha messo insieme musicisti provenienti da background diversi divertendosi ad usare un linguaggio libero sia vocalmente che musicalmente. Il collettivo alla base del disco si compone di Nicholas Remondino (percussioni e synth), Cécile Delzant (violino e voci) e Filippo Manfredi Giusti (batteria), oltre alle collaborazioni di dTHEd e Enrico Gabrielli (flauto). L’album è composto da dodici tracce che si susseguono come fossero un viaggio dentro noi stessi e all’interno di quella collettività dove riusciamo a mostrare tutte le nostre contraddizioni, dodici personalità complesse costruite a partire dalle zone d’ombra della coscienza. Unione e conflitto fra maschile e femminile, volontà creativa e
distruzione, solitudine e collettività, natura e tecnologia. “Errare (Il Viaggiatore)” è l’ennesima dimostrazione di una forza creativa straordinaria.

Nel 2024 c’è stato il debutto sulla lunga distanza dell’ennesimo gruppo in area post-punk proveniente da Dublino. Gli Sprints, dopo due EP (il primo è del 2021), hanno pubblicato Letter To Self, disco che aveva fatto spellare le mani a parte della stampa musicale anglosassone che si era lanciata in alcune esagerazioni tipiche di certa stampa. Insomma, com’è questo esordio degli Sprints? Secondo la casa discografica “Trasformando il dolore in verità, la passione in proposito e la perseveranza in forza, i quattro ragazzi di Dublino sono cresciuti costantemente negli ultimi tre anni, costruendosi sul palco un’enorme reputazione aprendo per artisti del calibro di Yard Act e Suede. Letter To Self è il suono degli SPRINTS capaci di migliorarsi ancora una volta, rielaborando i loro passaggi più vulnerabili e arricchendo il loro garage-punk viscerale con un senso di catarsi palpabile di cui tutti possiamo beneficiare.
La cantante, chitarrista e autrice principale Karla Chubb non si è mai sottratta al confronto con i suoi tumulti interiori. Nata a Dublino, ha trascorso parte della sua prima infanzia in Germania, dedicandosi inizialmente alla musica come conseguenza della sensazione di non sentirsi al passo con il mondo. “Vivevo in un costante stato di crisi esistenziale”, ricorda. “La musica è diventata uno sfogo per le emozioni e un modo per capire me stessa e la società”. Naturalmente quella della City Slang è una considerazione “di parte”, ma il suono proposto dalla cantante chitarrista Karla Chubb insieme al bassista Sam McCann, al chitarrista Colm O’Reilly e al batterista Jack Callan, si inserisce in un binario non propriamente originale ma allo stesso tempo dimostra personalità e capacità di scrittura. L’incedere di “Up And Comer” è una carta d’identità niente male per un gruppo ancora acerbo ma che potrà sicuramente dire la sua in un ventaglio di proposte davvero notevole.

Il podcast prosegue con un disco che nel 2016 è riuscito a conquistare la vetta della mia personalissima classifica. Chris Forsyth, il chitarrista dei fantasiosi Peeesseye (un trio di pazzi furibondi che amavano celebrare arditi baccanali dedicati all’improvvisazione e all’avant-rock), dopo lo scioglimento della band ha intrapreso un percorso estetico diametralmente opposto. Il suo Solar Motel del 2013 è stata la scintilla che gli ha fatto venire l’idea di creare una vera band, chiamata proprio The Solar Motel Band, con cui poter definitivamente accantonare le asprezze del suo precedente progetto e approdare ad un suono che bilancia l’amore per il suono chitarristico trascendente degli anni ’70 con la sperimentazione dei giorni nostri. Questo doppio album chiamato The Rarity Of Experience è diviso idealmente in due parti, con la prima più di impatto sonoro, un maestoso monumento allo strumento principe del rock che viene portato in trionfo da una ritmica sostenuta su centinaia di chilometri di strade blu, mentre la seconda va a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali.
Anche “Anthem”, primo brano in scaletta, è diviso idealmente in due parti: lento all’inizio ma via via più aggressivo, riuscendo ad insinuarsi sotto pelle, come una jam session ben congegnata che non può non ricordare le modalità di costruzione sonora dei Grateful Dead o dei Quicksilver Messenger Service. Più in generale, il suono si rifà alle band del passato che hanno fatto dello scontro tra chitarre in alta quota, o in un polveroso deserto, il proprio inequivocabile marchio di fabbrica. Non aspettatevi però virtuosismi chitarristici, la psichedelia liquida del musicista di Philadelphia non contempla (fortunatamente) questo aspetto, andando a privilegiare la bontà del suono, l’elevazione dell’elegia, gli stimoli cerebrali.

La carriera musicale di Tim Rutili inizia nel 1984 quando, dopo essersi trasferito a Chicago per frequentare la scuola di cinema, ha incontrato la bassista Glynis Johnson con cui intraprese una relazione sentimentale e musicale sfociata nella creazione dei Friends Of Betty, autori di un solo trascurabile disco. La storia cambia di lì a poco quando nel 1992 Rutili e compagni si ribattezzano Red Red Meat prendendo (presumibilmente) il nome dall’attività del batterista Ben Massarella che lavava i camion che trasportavano la carne quando uscivano da Chicago. Messi sotto contratto da una delle etichette più importanti del momento, la Sub pop, Rutili ha potuto sviluppare compiutamente la sua personale visione del rock blues.
Dopo un esordio grezzo ed un seguito più rifinito, il suono dei Red Red Meat si perfeziona nel terzo lavoro Bunny Gets Paid uscito nel 1995, dove il blues si stempera in malinconia, si impenna in visioni kraut e psichedeliche per poi lasciarsi andare in brani celestiali come la “Gauze” inserita in scaletta. Il successivo There’s a Star Above the Manger Tonight uscito due anni più tardi sarà il canto del cigno del gruppo prima dell’ennesima magia di Tim Rutili che sarà in grado di rinascere e diventare un classico con una nuova sigla attiva fino ai nostri giorni. I Califone, nato come progetto solista di Rutili si sono presto trasformati in un gruppo a tutti gli effetti, con una lista regolare e a rotazione di collaboratori, tra cui molti ex Red Red Meat e alcuni musicisti provenienti da altre band di Chicago.

Quante gliene abbiamo dette a Bono e compagni… Dopo quel Rattle And Hum che ne sanciva la virata americana e Achtung Baby, un’acclamata svolta futurista registrata a Berlino che sembrava aprire una nuova era mentre invece, a posteriori, non è stata altro che l’inizio di una vertiginosa parabola discendente. Adesso gli U2 ci sembrano un gruppo bolso ed inutile, semplice simulacro di un rock di cui sembravano essere padroni negli anni ’80. I quattro irlandesi, Paul David Hewson, in arte Bono, David Howell Evans, in arte The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen, si sono uniti sotto il nome di celebre aereo-spia americano a Dublino nel 1976, facendo il loro esordio nel 1980 con un album grezzo ed energico come Boy.
Durante i primi anni il quartetto mette a punto il loro concentrato di energia, spiritualità ed epicità, toccando spesso anche le corde della lotta politica e religiosa che infiamma da sempre il loro paese e aumentando le loro invettive politiche e sociali nel terzo lavoro intitolato non a caso War. Il sugello di questa fase energetica e post-punk è, come spesso accadeva in passato, un album live. Under A Blood Red Sky, pubblicato nel 1983, comprende otto brani registrati dal vivo durante tre concerti del loro “War Tour” : Denver (Colorado), Boston (Massachusetts) e Sankt Goarshausen (Germania). Una carica esplosiva diretta capace davvero di accendere entusiasmi, brani suonati in maniera potente, senza fronzoli, capaci di trascinare ed emozionare come nella “I Will Follow” inserita nel podcast. Un lavoro che chiude la prima parte di carriera (probabilmente la loro migliore) e che ci fa rimpiangere un gruppo che nel 2025 mette addosso solamente tanta tristezza.

Il podcast prosegue con un’affascinante songwriter dal taglio classico che pure suonando inevitabilmente retro, riesce a creare un’atmosfera incredibilmente affascinante. Sto parlando di Jessica Pratt. Nata a Redding, California, già da piccola grazie alla madre è stata circondata da gruppi come X, Gun Club e T. Rex, che l’hanno invogliata ad imbracciare la chitarra sin da adolescente. Dopo essersi trasferita a San Francisco, è stata introdotta al progetto solista di Tim Presley, White Fence, attraverso il fratello di Presley, che è stato suo compagno di stanza per tre anni. Ed è proprio grazie allo sghembo cantautore, di cui abbiamo parlato più volte su queste pagine, che ha fatto il suo esordio discografico nel 2012 grazie all’etichetta di Presley, la Birth Records.
Un percorso lineare, da perfezionista quale è, fatto di piccoli microcosmi fatti di malinconie, di richiami ai Beach Boys, alla bossanova. Le sue canzoni sono piccoli congegni di precisa ingegneria, mai freddi, permeati, al contrario di una bassa fedeltà che lei indossa con grazia ed armonia. Here In The Pitch, suo quarto lavoro in studio, è uscito a metà 2024 dopo 5 anni di silenzio dovuti alla pandemia, uno spazio di tempo dove la Pratt, con certosina pazienza, ha creato nove brani di pura, agrodolce, bellezza. La “World On A String” inserita nel podcast ne fotografa il momento di grazia.

Continuiamo il podcast con un’artista che sta davvero facendo un percorso molto interessante. La cantante e polistrumentista basca Elena Setién, dopo anni vissuti in Danimarca, è tornata nella sua terra natale da qualche anno ed ha fatto uscire nel corso del 2024 il suo quinto album in studio, terzo per la Thrill Jockey. Il suo cantautorato, sorretto dal pianoforte o dalla chitarra e impreziosito dalla sua splendida voce, è ricco di trame e di dettagli, con delicati arrangiamenti che vanno a lambire il folk, ma sempre con una spiccata personalità che gli permette di restare intrigante ed eccentrica nel suo approccio al pop mai banale. nell’arco degli anni molti artisti hanno collaborato con lei, da Steve Gunn a Mary Lattimore, passando per i musicisti baschi Xabier Erkizia e Grande Days. Stavolta la sua musica ha attirato l’attenzione di un musicista che appartiene ad un mondo che sembra distante.
Elena Setién e Glenn Kotche si sono incontrati mentre il batterista/percussionista era in tournée in Spagna con i Wilco. Visto che il batterista era stato colpito dal precedente album dell’artista basca, Unfamiliar Minds, i due hanno iniziato a parlare di una collaborazione che si è concretizzata in questo nuovo Moonlit Reveries, il cui incipit è la“Hard Heart” che potete ascoltare nel podcast. Anche se non in tutti i brani è presente Kotche, la sua presenza nell’album ha rinvigorito il desiderio della Setièn di approfondire il ritmo come via d’espressione, incorporando nella sua musica un’architettura ritmica più influenzata dal latino e facendola esclamare: “Stranamente, essendo io un’artista spagnola, ho cercato ispirazione nei ritmi di un batterista di Chicago per arrivare a qualcosa che avesse un’impronta latina. Un modo in qualche modo surreale per arrivarci”.

Continuiamo il podcast parlando di tre eterni ragazzi che deliziano i nostri padiglioni auricolari sin dal 1984, anche se il loro primo album risale a due anni più tardi. Ira Kaplan (chitarra e voce) e Georgia Hubley (batteria) hanno formato la band nel 1984 scegliendo il nome Yo La Tengo, che in spagnolo significa “ce l’ho”, prendendolo direttamente da un aneddoto della stagione di baseball 1962, quando l’esterno centro dei New York Mets Richie Ashburn e l’interbase Elio Chacón si scontrarono nell’outfield. Quando Ashburn andava a prendere la palla, gridava: “I got it” solo per imbattersi in Chacón, un venezuelano che parlava solo spagnolo. Da quel momento Ashburn imparò a gridare “Yo la tengo!”.
Il gruppo, consolidatosi con l’ingresso di James McNew nel 1992, ha attraversato tutta la storia dell’indie rock a stelle e strisce iniziando, proprio con l’arrivo del nuovo bassista, una nuova fase culminata proprio con l’album inserito nel podcast. And Then Nothing Turned Itself Inside-Out, il loro nono disco in studio pubblicato nel 2000, è probabilmente uno dei migliori della loro lunga carriera. Le atmosfere si dilatano per una sorta di psichedelia onirica che strizza l’occhio ad un certo tipo di post rock. La splendida, diluita La canzone inserita nel podcast, “The Crying Of Lot G”, è un riferimento al romanzo di Thomas Pynchon “L’incanto del lotto 49”.

Visto che con la band di Hoboken abbiamo già dilatato le atmosfere, proseguiamo su questo binario andando a dirigerci verso binari non troppo consueti da queste parti. Un disco hip-hop che ha lasciato un segno profondo, un trio di ragazzi bianchi californiani che si è ribattezzato cLOUDDEAD composto da Doseone (Adam Drucker), Why? (Yoni Wolf) e Odd Nosdam (David Madson) capaci di realizzare basi con una strumentazione tanto povera quanto incredibilmente creativo, tanto da far riaccendere una scintilla in un genere musicale che nel 2001 sembrava aver esaurito le idee. Il loro album cLOUDDEAD comprende 12 tracce originariamente pubblicate come sei singoli da 10” (registrati tra il 1998 e il 2000).
Questi brani mostrano una concezione completamente diversa rispetto a quello cui eravamo abituati, battiti rallentati, una struttura eterea, una psichedelia di fondo con un punto di contatto con la musica di ambiente. Un hip-hop alternativo dai testi criptici, quasi surrealisti che vanno a scardinare i cliché classici del genere. Un disco visionario e intimista che risulta estremamente personale e difficilmente accostabile ad altri lavori del genere. Un disco che ha davvero scritto una pagina nuova ed importante, creando un’atmosfera soffusa e onirica al pari di certo post-rock. L’apertura di “Apt. A (1)” ci trasporta in un mondo surreale ed unico.

Siamo ormai atterrati in ambiti elettronici e proseguiamo su questa direttrice andando a parlare di uno dei più devastanti produttori e musicisti del genere, attivo da moltissimi anni con progetti sempre estremamente riusciti. Il britannico Kevin Martin ha iniziato a interessarsi alla musica da adolescente, attratto dalla visione sonora dei Joy Division, dei Sex Pistols, di Captain Beefheart, dei Birthday Party e dei Throbbing Gristle. Ha descritto il suo interesse iniziale per la musica come derivante dalla sua difficile situazione familiare durante l’infanzia, aggiungendo: “la musica post-punk faceva a pezzi i libri delle regole e metteva in discussione tutto, in particolare la struttura in termini di musica, arte, politica”. Attratto dall’estetica DIY ha iniziato a lavorare con un registratore a quattro tracce e un pedale per gli effetti.
Tantissimi i suoi progetti, da quelli con Justin Broadrick chitarrista dei Godflesh (GOD, Ice) a quello probabilmente più conosciuto, ovverosia The Bug, di cui parleremo sicuramente in fase di Playlist 2024. Nel 2008, durante la registrazione di uno dei migliori album sotto il nome The Bug come l’incredibile London Zoo, Martin collabora con il poeta-songwriter Roger Robinson per una traccia tanto delicata quanto potente intitolata “You & Me”. Questa collaborazione si concretizza l’anno successivo quando i due incidono un album insieme per la Hyperdub sotto il nome di King Midas Sound. I ritmi dub di Martin e la voce di Robinson si uniscono meravigliosamente in questo album intitolato Waiting For You… dove la versione del dubstep di Martin avvolge in una scura morbidezza come nella “Outta Space” inserita nel podcast.

Impossibile immaginare la soul music senza un artista importante e fondamentale per il genere come Marvin Gaye. Una profonda fede religiosa, ma anche momenti di depressione, a partire da quello causato dalla malattia della sua sodale di palco Tammi Terrell con cui interpretò molti duetti di successo. È stato un artista importantissimo nello sviluppo della soul music, tra i primi ad assecondare lo spirito della Motown che divenne presto punto di riferimento del soul afroamericano con il suo repertorio di alta fattura che strizzava l’occhio alle classifiche. Gaye nel 1971 fa cambiare tendenza alla Motown con What’s Going On?, manifesto della nuova soul music, un disco che allontana in qualche modo l’amore carnale per mettere in primo piano la paura per i cambiamenti del mondo, per le condizioni sociali di alcune categorie di persone e per l’inquinamento ambientale.
Un album di profonda spiritualità che cambia per sempre la prospettiva della musica afroamericana. Due anni dopo Gaye incide il suo altro capolavoro, Let’s Get It On, dove cerca una sorta di compromesso tra spiritualità e sensualità, con il suo incedere vocale meravigliosamente inquieto. La sua vita venne spezzata la mattina del primo aprile 1984, a Los Angeles, appena un giorno prima del suo quarantacinquesimo compleanno, Marvin Pentz Gaye jr da Washington, in arte Marvin Gaye, litigò per l’ennesima volta con suo padre che gli sparò con la pistola che lo stesso cantante gli aveva regalato qualche mese prima. Morì prima di raggiungere l’ospedale.

Quando nel 2023 l’ufficio stampa della Drag City mi ha chiesto di occuparmi della recensione di questo album, il mio primo pensiero è stato quello di un progetto estemporaneo nato e sviluppato nel corso della pandemia. In realtà Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin si sono incontrati all’interno dello Studio Rymden, in un tranquillo e grazioso quartiere periferico di Stoccolma, nel novembre del 2018, dando vita alle sessions che solo qualche anno dopo hanno visto la luce sotto il nome di Ghosted. Il trio era entrato in studio per approfondire il processo di pensiero a cui erano giunti nella seconda collaborazione tra Ambarchi e Berthling intitolata Tongue Tied e uscita nel 2015. Dato che Werliin aveva mixato quell’album, ed era già stato intimamente coinvolto nel processo, è stato più che naturale farlo sedere dietro ai tamburi.
Visto il successo del primo, i tre sono tornati nel giugno del 2023 sul luogo del delitto, lo Studio Rymden, per registrare una nuova lunga jam session divisa di nuovo in quattro parti, intitolate seguendo la sequenza in svedese, dove basso e batteria creano dei pattern ritmici reiterati con minimi spostamenti e calibrate variazioni sul tema. Anche Ghosted II, nonostante il pedigree di sperimentatori dei tre, è tutto tranne che un album ostico, un dialogo crepuscolare tra musicisti, l’attenta cura dello spazio dei suoni e dell’importanza del silenzio, le ripetizioni perfettamente calibrate dove le improvvisazione riescono ad incastrarsi perfettamente. Un disco crepuscolare di grande fascino come dimostra la “Tre” inserita nel podcast.

Come promesso chiudiamo il podcast così come l’abbiamo aperto, ricordando un’artista unico per empatia, bontà d’animo, talento e grande sensibilità artistica. Paolo Benvegnù aveva creato un’isola speciale, di cui era capace di mostrarci ogni bellezza visibile o nascosta senza mai autoincensarsi o avvilirsi per non aver ottenuto il successo che avrebbe meritato. Sembrava fosse arrivato il suo momento a fine 2024, la vittoria del Premio Tenco, “li ho presi per stanchezza” diceva con la sua innata ironia miscelata al giustificato orgoglio di avercela finalmente fatta. E proprio la sera prima della sua inaspettata morte, era stato ospite di Stefano Bollani a Via dei Matti nº0 nella puntata dedicata a George Harrison.
Una carriera solista splendida iniziata nel 2004 dopo l’avventura con gli Scisma, e che era arrivata nel 2024 al nono album con lo splendido È Inutile Parlare D’Amore, come detto vincitore della Targa Tenco. Nello stesso anno era uscito anche Piccoli Fragilissimi Film Reloaded, tributo in grande stile del suo album di esordio che prevedeva la rilettura degli undici brani in duetto con altrettanti ospiti. Proprio Piccoli Fragilissimi Film aveva aperto la sua splendida carriera solista venti anni prima, primo episodio di una splendida carriera. Un album composto a più mani, dove il chitarrista Massimo Fantoni insieme al batterista Andrea Franchi aveva scritto e arrangiato insieme a Benvegnù alcune tracce come la splendida “Cerchi Nell’Acqua” scelta per chiudere il podcast. Abbiamo perso un grande poeta e un grande artista.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane quando scoprirete la prima parte della mia personalissima Playlist 2024 con le posizioni dalla #30 alla #16.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. SCISMA: Rosemary Plexiglas da ‘Rosemary Plexiglas’ (1997 – EMI)
02. ARCO: Errare (il Viaggiatore) da ‘Orama’ (2023 – Ammiratore Omonimo Records)
03. SPRINTS: Up And Comer da ‘Letter To Self’ (2024 – City Slang)
04. CHRIS FORSYTH & THE SOLAR MOTEL BAND: Anthem II da ‘The Rarity Of Experience’ (2016 – No Quarter)
05. RED RED MEAT: Gauze da ‘Bunny Gets Paid’ (1995 – Sub Pop)
06. U2: I Will Follow da ‘Live – Under A Blood Red Sky’ (1983 – Island Records)
07. JESSICA PRATT: World On A String da ‘Here In The Pitch’ (2024 – Mexican Summer)
08. ELENA SETIÉN: Hard Heart da ‘Moonlit Reveries’ (2024 – Thrill Jockey)
09. YO LA TENGO: The Crying Of Lot G da ‘And Then Nothing Turned Itself Inside-Out’ (2000 – Matador)
10. cLOUDDEAD: Apt. A (1) da ‘cLOUDDEAD’ (2001 – Mush)
11. KING MIDAS SOUND: Outta Space da ‘Waiting For You…’ (2009 – Hyperdub)
12. MARVIN GAYE: What’s Going On da ‘What’s Going On’ (1971 – Tamla Motown)
13. OREN AMBARCHI / JOHAN BERTHLING / ANDREAS WERLIIN: Tre da ‘Ghosted II’ (2024 – Drag City)
14. PAOLO BENVEGNÚ: Cerchi Nell’Acqua da ‘Piccoli Fragilissimi Film’ (2003 – Santeria)
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Pronto (in ritardo) anche da leggere il mio #podcast dedicato al grande Paolo Benvegnù https://t.co/z3Jw8lE4b1
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) March 18, 2025