Ecco il quattordicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa avventura in musica riprendiamo
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo quattordicesimo episodio stagionale troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire partendo dal ricordo di un grande come David Johansen per poi andare ancora più indietro con un Dylan di annata prima di un andirivieni tra il nuovo Rose City Band, un piccolo excursus nella scura new wave di inizio ’80 con Tuxedomoon e Eyeless In Gaza, lo slowcore dei Codeine e The For Carnation, il post rock di Furry Things di cui abbiamo parlato nello scorso podcast e le morbide melodie dei Modern Studies. Ancora novità interessanti con un EP dal vivo dei Daughter e l’intrigante nuovo Horsegirl prima di chiudere con l’incantevole voce di Mariam The Believer, il trentennale di uno dei capolavori di PJ Harvey e le suggestioni oniriche di Rustin Man. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con il doveroso tributo a David Johansen, ultimo membro delle New York Dolls a lasciarci in questa valle di lacrime. La voce di Johansen, insieme alla chitarra di Johnny Thunders (all’anagrafe John Anthony Genzale, Jr.) è stata di fondamentale importanza per la creazione di un suono unico, oltraggioso, potente e stradaiolo che prendeva a piene mani dai primi Stones, dagli Stooges, che sarà fondamentale pietra miliare pochi anni più tardi per la creazione del punk, insieme un’estetica di depravazione ed oltraggio con i travestimenti, rossetti, parrucche e trucco pesante a dare una connotazione precisa al quintetto newyorchese.
Insieme ai due leader c’erano la chitarra ritmica di Sylvain Sylvain (all’anagrafe Sylvain Mizrahi) e la sezione ritmica composta dalla batteria di Jerry Nolan e dal basso di Arthur “Killer” Kane. Il loro album di esordio autointitolato rimane una pietra miliare del proto-punk: chiassoso ed esplicito come dimostra la “Personality Crisis” che apre album e podcast, un disco e un gruppo tanto sottuvalutato al momento dell’uscita quanto rivalutato ed esaltato successivamente. Il gruppo avrà vita breve: si scioglieranno dopo il secondo album per poi riunirsi nel 2006 con i soli Johansen e Sylvain del quintetto originale. Johansen inizierà una più che discreta carriera solista sotto il nome di Buster Poindexter mentre Thunders resterà coerente all’indole punk con i suoi The Heartbreakers prima di finire nella spirale delle dipendenze che se lo porterà via nel 1991.

Sembra banale dirlo, ma Bob Dylan non è un songwriter qualunque. Ha inciso in maniera determinante sulla storia della musica moderna, ha ridefinito e ridisegnato da capo il ruolo di cantautore scrivendo un’infinità di brani immortali. Lo spessore letterario di Dylan, lo ha portato a vincere nell’ottobre 2016 il premio Nobel per la letteratura, e nonostante le polemiche che si sono scatenate dopo l’assegnazione del premio, da amante della musica sono stato più che felice di vedere finalmente raggiunta la consapevolezza che anche i testi delle canzoni possono, in alcuni casi, essere grande letteratura. Dylan è stato anche uno dei pochissimi, e probabilmente il solo, ad aver pubblicato almeno un capolavoro per ogni decade a partire dagli anni ’60.
Stavolta sono tornato indietro proprio fino al cuore degli anni ’60. Il 30 agosto 1965 Dylan pubblica Highway 61 Revisited, sesto lavoro in studio e secondo della sua cosiddetta “trilogia elettrica” che si concluderà con un altro album monumentale come Blonde On Blonde. Il titolo deriva dalla strada americana che va dal Minnesota (stato di nascita di Dylan) fino alla foce del fiume Mississippi. Registrato con la collaborazione dei giovanissimi Mike Bloomfield e Al Kooper, il disco, seppur ricordato da molti soprattutto per la presenza di un superclassico consolidato come “Like A Rolling Stone”, è ormai considerato come una pietra miliare del rock tutto e presenta altri brani meravigliosi come la “Tombstone Blues” inserita del podcast, blues rock piuttosto canonico, ma con un testo pieno zeppo di di immagini surreali e metafore, con sarcastiche frecciate alla società e all’autorità in generale, tipiche del Dylan del periodo, con frasi come: “the sun’s not yellow, it’s chicken”. Stephen King cita la canzone alla fine del suo racconto Carrie, utilizzando delle strofe simili a quelle della canzone.

Ripley Johnson non è noto solo per far parte dei rockers psichedelici Wooden Shjips. ma è anche un personaggio irrequieto e dalle mille sfaccettature. Dopo aver formato i Moon Duo insieme a Sanae Yamada lasciando scorrere un po’ di sangue kraut nelle sue vene, si è lasciato andare ad una carriera solista parallela dove poter sfogare tutta la sua passione per il country rock. Nascosto dietro al nome di Rose City Band, esplora ormai da anni le sue radici che sono ben salde nell’amore per i dischi prodotti nella seconda metà degli anni Settanta. La band, oltre a Johnson, comprende il chitarrista Barry Walker, il tastierista Paul Hasenberg e il batterista John Jeffrey, che intrecciano uno spiccato senso della ritmica e della melodia con atmosfere più dolci e sontuose.
Il quinto album del gruppo, uscito a gennaio 2025, si intitola Sol Y Ombra, i cui contrasti evidenziati già del titolo, l’equivalente musicale delle stelle luminose in un cielo notturno, sono per Johnson un’ evidenza inevitabile. “Con la Rose City Band, in genere cerco di fare musica che dia sollievo, musica per il piacere di divertirsi”, ha detto Johnson. “Questa volta non potevo evitare che l’ombra fosse più presente. Non c’è modo di evitarla. L’ombra è sempre lì. Quindi, l’ho lasciata all’interno”. Come in molti album di genere che rompono la stampa privata, i contrasti di Sol Y Sombra, intrisi di malinconia, esaltano allo stesso modo i momenti di gioia e di movimento, elevando la musica con la sua onestà e intimità come nella “Seeds Of Light” inserita nel podcast. Quello che aveva convinto di più nei primi capitoli della Rose City Band era quell’equilibrio tra folk, country e psichedelia, quella trascendenza che veniva fuori dai solchi e che, da un paio di lavori a questa parte, sembra latitare a favore di una scrittura che a volte sembra fin troppo raffinata.

Nei podcast abbiamo parlato più di una volta della scena sperimentale e underground di San Francisco che faceva capo all’etichetta Ralph Records creata dai The Residents ed aveva creato il cosiddetto “quadrato di San Francisco”, formato dai quattro gruppi più importanti della scena musicale locale dell’epoca: gli stessi Residents, i Chrome, i Tuxedomoon e gli ultimi arrivati MX-80 Sound. Fondati nel 1977 dai polistrumentisti Blaine L. Reininger e Steven Brown, all’epoca studenti di musica elettronica al San Francisco City College, i Tuxedomoon cominciarono ad esibirsi nei locali cittadini creando uno spettacolo multidisciplinare grazie all’apporto del gruppo teatrale Angels Of Light dell’artista Tommy Tadlock e del mimo e cantante Winston Tong. Il gruppo ottenne una certa notorietà già nel 1978, dopo aver aperto i concerti dei Devo. Successivamente si unì al gruppo il bassista Peter “Principle” Dachert.
Il loro suono di avanguardia così teatrale e glaciale attirò subito l’attenzione dei Residents, e la Ralph Records pubblicò i primi due album della band, pubblicazioni di importanza enorme per la neonata new-wave: Half-Mute nel 1980 e Desire nel 1981. Il loro post-punk da camera aveva ottenuto più entusiasmo in Europa che negli States, e per la band è naturale trasferirsi armi e bagagli nel vecchio continente. Prima in Olanda e poi a Bruxelles. Desire viene registrato a Londra, vede l’apporto del loro vecchio amico Winston Tong, e vede l’approccio colto del gruppo mutare leggermente facendosi meno spigoloso ma mantenendo quella incredibile e scura mistura tra post-punk e avanguardia che li ha resi imprescindibili. “In the Name of Talent (Italian Western Two)” è solo una delle meraviglie racchiuse in questo scrigno prezioso.

Nuneaton è una città della contea del Warwickshire, in Inghilterra teatro dell’incontro, all’inizio degli anni ’80 tra il tecnico di laboratorio Peter Becker e l’impiegato dell’ospedale locale Martyn Bates. Entrambi condividevano l’amore per la sperimentazione, per le ambientazioni elettroniche e per un certo tipo di post-punk molto particolare, dalle venature scure e crepuscolari. Nel periodo del loro incontro, Becker stava leggendo la novella Eyeless In Gaza del noto scrittore britannico Aldous Huxley (tradotto in italiano come La Catena Del Passato), che l’aveva portato a scegliere proprio quel titolo come sigla del suo nuovo progetto musicale. Nome che in questi ultimi mesi, purtroppo, è tornato di strettissima (e tristissima) attualità.
La loro sensibilità, il loro pop crepuscolare insieme alla capacità di creare arrangiamenti non proprio convenzionali, convinsero quelli della Cherry Red Records a metterli sotto contratto. L’album di debutto Photographs As Memories esce nel febbraio 1981 mostrando le loro qualità di creare bozzetti e microfilm con molti strumenti elettrici ed acustici, tra new wave, pop da camera e minimalismo notturno come dimostra la splendida “Knives Replace Air”. Nonostante un successo commerciale che non è mai arrivato, il duo continua tuttora a fare musica, band di culto che riesce ad affascinare incurante delle mode che passano.

Siamo all’alba degli anni ’90, quando tre musicisti John Engle (chitarra), Stephen Immerwhar (basso e voce), e Chris Brokaw (batteria) ribaltano completamente l’estetica sonora del momento, andando a rallentare i ritmi fino allo sfinimento, mentre la tendenza dell’epoca, che poi porterà alla nascita del grunge, era al contrario di accentuarli rifacendosi all’estetica punk. Dalla musica dei Codeine si è coniato il termine slowcore, per indicare questo modo lento, dilatato e in qualche modo esasperato di concepire la musica. Il gruppo pubblicò due album ed un EP di enorme fascino prima di chiudere i battenti e lasciare la propria eredità ai posteri. La splendida etichetta Numero Group ha nel 2013 fortunatamente ristampato i tre album in studio della band.
A corollario delle ristampe, la label di Chicago ha aggiunto al catalogo un prezioso documento live chiamato What About The Lonely? che vede Engle e Immerwhar affiancati dal nuovo batterista Doug Scharin (che poi sarà un membro fondamentale di un altro gruppo enorme come i June of 44) esibirsi sul palco di casa del Lounge Ax di Chicago il 15 novembre del 1993, accompagnati in un paio di brani da David Grubbs (Squirrel Bait, Bastro, Gastr Del Sol). Malinconia, incomunicabilità, espresse da una lentezza celebrale ed emotiva, come in questa “Cave-In” tratta dal loro primo album in studio Frigid Stars LP.

Le scene negli Stati Uniti risultano da sempre fortemente localizzate. Come il grunge è stato un affare di Seattle e dintorni, così il primo punk fu newyorkese e californiano. E mentre la no-wave è stata specifica addirittura di alcuni quartieri della Grande Mela, così il post-rock è nato e vissuto soprattutto sull’asse Louisville/Chicago. Se il materiale del genere uscito al di fuori di queste due città non è stato molto a livello quantitativo, bisogna dire che invece è stato estremamente interessante a livello qualitativo. Venivano infatti da Austin nel Texas, che fu regione fondamentale per la psichedelia negli anni ’60, i Furry Things formati da Ken Gibson (voce, chitarra e tastiere), Cathy Shive (basso e voce), Chris Michaels (tastiere) e Charlie Woodburn (batteria).
Il loro esordio, nel 1996, si chiama The Big Saturday Illusion e il suono che esce dai solchi non è altro che una psichedelia bisbigliata e completamente immersa in una densa nuvola di feedback che esalta le progressioni melodiche ed armoniche. Ci sono tanto i primi Velvet Underground che gli Spacemen 3 come dimostra l’irresistibile “Piled High”. Tre anni dopo daranno alle stampe Moments Away che sarà il loro ultimo disco e proporrà un suono completamente stravolto, senza feedback e con una accresciuta attenzione per il krautrock e per l’attitudine degli Stereolab. Parallelamente Ken Gibson aveva iniziato anche la sua carriera solista improntata sulla ricerca elettronica con progetto chiamato Eight Frozen Modules di cui abbiamo parlato nello scorso podcast.

Abbiamo già parlato più volte (mi perdonerete per questo) degli Squirrel Bait, apparentemente una delle tante band hardcore con all’attivo un EP e un solo album, ma in realtà entrati nella leggenda perché dal loro scioglimento si sono formate alcune tra le band più importanti del rock alternativo americano degli anni ’90. Il chitarrista Brian McMahan andrà a formare gli Slint insieme all’ex batterista dei Bait Britt Walford, mentre l’altro chitarrista David Grubbs formerà i Bastro, i Bitch Magnet e i Gastr Del Sol insieme a Jim O’Rourke. Dopo l’esperienza Slint, nel 1995 Brian McMahan e David Pajo insieme a John Herndon e Doug McCombs dei Tortoise danno vita al progetto The For Carnation pubblicando il primo EP intitolato Fight Songs.
Il mini album. che comprende solo tre tracce tra cui la splendida “Get And Stay Get March” inserita nel podcast, mostra la visione intimista e drammatica di McMahan e compagni. Dopo un secondo EP (che verrà ristampato insieme a Fight Song in una compilation intitolata Promised Works), il gruppo si prenderà una pausa, tornando nel 2000 con un album eponimo che vede una line up profondamente modificata con McMahan come unico superstite. L’album è un viaggio narcolettico e cinematico di profonda suggestione, un disco cui sono particolarmente legato perché l’ultima traccia, “Moonbeams”, è stata anche la chiusura del mio viaggio in FM su Radio Rock 106.6 a Roma nell’aprile del 2000.

Dalla contea scozzese del Perthshire a quella del Lancashire, nord-ovest dell’Inghilterra, passando per Glasgow. In queste coordinate geografiche si muove lentamente il folk-rock pieno di riferimenti kosmische di un quartetto chiamato Modern Studies, che con The Weight Of The Sun è giunto cinque anni fa ad un ideale lavoro della maturità dopo aver affilato le proprie armi con i precedenti Swell To Great (2016) e Welcome Strangers (2018). La band è formata da Emily Scott (voce, organo, piano, contrabbasso, violino, synths), Rob St. John (voce, chitarra, synths, harmonium, autoharp), Pete Harvey (basso, tastiere, violino, violoncello, theremin) e Joe Smillie (batteria, percussioni, mellotron, cori), con i primi due a tracciare la traiettoria ideale del percorso del quartetto con le loro voci sovrapposte.
A colpire, in questo album dei Modern Studies, sono gli arrangiamenti, sofisticati ma mai pesanti. E se all’inizio il raddoppiare e sovrapporre le voci può sembrare una pratica straniante ai non avvezzi alle produzioni della band, dopo ripetuti ascolti è una modalità che diventa sempre più imprescindibile. “Brother” è uno dei brani migliori con i suoi momenti di stasi, la batteria che sembra in secondo piano ma che è sempre capace di far sobbalzare, le voci che si inseguono, i cori paradisiaci ed evocativi, ed uno stacco di archi e fiati a metà brano semplicemente straordinario. Questo splendido album probabilmente non basterà per farsi apprezzare dal grande pubblico ma sicuramente sarà abbastanza per chi, come noi, ama farsi scaldare il cuore da queste piccole grandi magie senza tempo.

I Daughter, trio composto da Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella, si sono formati nel 2010. Dopo aver pubblicato due album in studio, If You Leave (2013) e Not to Disappear (2016), e la colonna sonora del videogioco Music From Before the Storm (2017), hanno scelto di prendersi una pausa. Ma non prima di aver suonato insieme a Los Angeles, tra un tour di supporto ai The National e i loro primi concerti da headliner in Sud America. È qui che ha iniziato a germogliare un nuovo album. Nei due anni successivi, durante i quali hanno lavorato ai propri progetti, i Daughter si sono incontrati occasionalmente per scrivere insieme negli studi di Londra, Portland e San Diego, dove Haefeli ha vissuto per sei mesi nel 2019.
La figura romantica centrale del disco è una persona che la Tonra ha incontrato lì in visita da Londra. Hanno condiviso un legame significativo, ma lei sapeva che erano separati dall’Atlantico e la distanza è un punto cardine di Stereo Mind Game, uscito dopo ben 7 anni di silenzio. I Daughter hanno iniziato a registrare seriamente le dodici canzoni dell’album nel 2021. Haefeli, che vive a Bristol, si è incontrato con Tonra nei Middle Farm Studios di Devon. Aguilella, che vive a Portland, Oregon, ha registrato le sue parti di batteria nei Bocce Studio di Vancouver, Washington. La pandemia ha fatto il resto, allungando la tempistica dell’uscita del disco. Ma valeva la pena di aspettare per poter riascoltare il loro suono evocativo, una sorta di dream-pop impreziosito dall’orchestra d’archi londinese 12 Ensemble. A distanza di due anni il trio ha fatto ritorno all’intimità dei Middle Farm Studios vicino a Dartmoor, Inghilterra, per registrare alcune di quelle canzoni avvincenti e nostalgiche. La splendida “Future Lover” fa parte di questo EP live pubblicato in digitale come Middle Farm Session.

Mariam Wallentin è una delle voci più belle, duttili, potenti ed espressive del panorama europeo. La ragazza di Goteborg non si limita ad essere metà del progetto Wildbirds & Peacedrums insieme al marito Andreas Werliin, ma collabora sempre più spesso con il combo avant-jazz Fire! Orchestra, ha dato il suo apporto fondamentale all’ultimo (purtroppo) album in studio degli psych-rockers svedesi The Skull Defekts, e, dal 2013, si è lasciata andare in un progetto solista chiamato Mariam The Believer, dove riesce a far uscire fuori la sua anima melodica (e non ci sono mai stati dubbi sul fatto che fosse lei l’anima pop del duo), mentre l’orchestrazione tende a dilatarsi ed ampliarsi naturalmente.
Il suo album di esordio si intitolava Blood Donation, lavoro dove le inconfondibili percussioni del marito non mancano di certo, ma insieme a tamburi e piatti ecco apparire anche chitarre, (tra cui la Gibson che appare nell’orribile copertina), tastiere, strumenti a fiato e i cori, mai invasivi come in Rivers dei W&P, ma spesso presenti ad arricchire ancor di più il suono, il tutto condito da una produzione pulita ed accurata. Lo splendido singolo “The String Of Everything” mostra l’enorme potenzialità di Mariam anche sul versante di pop alternativo, superando la prova solista a pieni voti: l’approccio al pop e alla melodia della sua controparte The Believer risulta spesso e volentieri convincente, sia nelle parti più morbide, sia in quelle più sghembe ed affilate.

Torniamo alle novità discografiche con il secondo lavoro di un trio di Chicago. Le Horsegirl sono Nora Cheng, Penelope Lowenstein e Gigi Reece che dopo un esordio avvincente chiamato Versions of Modern Performance (registrato nello studio dei Wilco) hanno attraversato un periodo di cambiamenti importanti. Nell’autunno dello stesso anno si sono trasferite a New York City, dove Penelope e Nora hanno frequentato l’Università di New York, e per la prima volta il trio ha scritto musica al di fuori del seminterrato dei genitori di Penelope. È possibile percepire la spinta verso una nuova direzione in virtù del loro nuovo ambiente, ma in questo periodo di cambiamenti senza precedenti, la band si è rivolta verso l’interno.
Le Horsegirl sono tornate a Chicago per registrare nel gennaio del 2024, trovando in studio la concentrazione e l’intimità che possono nascere solo quando fa troppo freddo per uscire. Meno acerbe dell’esordio, le tre ragazze sono state prese per mano da Cate Le Bon, pronta a condurli in territori pop forse più spigolosi e sghembi ma sempre estremamente affascinanti. Il nuovo lavoro intitolato Phonetics On And On ci mostra un suono più maturo ma capace di divertire e affascinare come ci dimostra la “In Twos” inserita nel podcast. Nuovi strumenti contribuiscono a dare vita a questo mondo: violini e sintetizzatori si intrecciano nel disco, fornendo una prova di sperimentazione con lo spazio e la struttura, pur mantenendo la canzone pop al centro. Brave.

Pochi artisti riescono ad attraversare tre decadi in maniera sempre importante reinventandosi ogni volta, mutando pelle e sconfiggendo il tempo. PJ Harvey è una di queste rare eccezioni, capace di convincere critica e pubblico ogni volta, album dopo album. Dall’esordio di Dry nel 1991 all’ultimo I Inside The Old Year Dying pubblicato a luglio 2023, l’artista di Bridport, nel Dorset, è stata capace di costruire un percorso netto, in crescendo. Sette anni dopo The Hope Six Demolition Project, album profondamente politico registrato alla Somerset House di Londra in varie sessioni aperte al pubblico, Polly Jean si è rimessa a nudo, con la sua voce in primo piano come non mai, al servizio di arrangiamenti scarni e oscuri, in una sorta di folk “sporco” capace di incantare e convincere.
Incredibile pensare che siano passati già ben 30 anni dall’uscita di To Bring You My Love, disco che ha ridefinito il suono di Polly Jean abbandonando lo scarno e ruvido scheletro voluto anche dal compianto Steve Albini e di fatto abbandonando il trio composto insieme a Robert Ellis (batteria) e Steve Vaughan (basso). Prodotto da Mark Ellis (anche conosciuto come Flood), l’album fu un grande successo mondiale con oltre un milione di copie vendute e divenne subito una pietra miliare del rock alternativo. In questo album PJ Harvey ampliò la sua tavolozza musicale, includendo archi, organi e effetti sonori elettronici, grazie anche all’ausilio di musicisti esperti come John Parish e Mick Harvey. “The Dancer” è lo straordinario brano che chiude l’intero lavoro.

La prima volta che ho sentito parlare di Rustin Man è stato nel 2002, quando uscì quella meraviglia chiamata Out Of Season firmata insieme alla cantante dei Portishead, Beth Gibbons. All’epoca ero in fissa con la band di Bristol e pronto ad accaparrarmi qualsiasi cosa che aveva la collaborazione di uno dei componenti del gruppo. Solo più tardi mi ero accorto che, nascosto dietro quello pseudonimo, si nascondeva il bassista di un’altra delle band che più mi aveva fatto battere il cuore: i Talk Talk. E poco importava che Paul Webb non aveva partecipato alla registrazione di Laughing Stock, canto del cigno della creatura di Mark Hollis. Webb, insieme al compagno di sezione ritmica Lee Harris, aveva già dato prova di grandi abilità compositive, non troppo dissimili da quelle di Hollis e compagni, come dimostra il disco con Beth Gibbons.
A sorpresa, diciassette anni dopo l’uscita di Out Of Season, Webb ha rispolverato il moniker di Rustin Man dando alle stampe uno splendido lavoro intitolato Drift Code, album in cui si ritrova, in qualche modo, quella cifra stilistica unica che ci ha fatto amare così tanto i Talk Talk. Due anni più tardi Paul Webb è tornato nel suo studio privato nella campagna dell’Essex, Webb insieme ad altri musicisti, tra cui spicca di nuovo il fido Lee Harris, dipingendo (sulla falsariga del primo) un universo evocativo malinconico incentrato sullo scorrere implacabile del tempo intitolato Clockdust, nove emozionanti tracce che nella loro profondità, non possono lasciarci indifferenti. “Night In Evening City” è una brano lungo e avvolgente, che ci fa entrare, in punta di piedi, nel delicato mondo del suo autore. Sono passati cinque anni da questo lavoro, speriamo che Paul Webb possa tornare presto ad allietare i nostri padiglioni auricolari.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire. Tra gli altri ci sarà un gruppo importante per la nascita dello shoegaze come i My Bloody Valentine, i trascinanti DER, un ricordo degli irregolari del grunge Mad Season, un piccolo viaggio in Italia con la psichedelia degli In Zaire e tantissime novità tra cui il ritorno della follia dei Tropical Fuck Storm, la potenza dei The Men e l’oscurità intrigante Haley Fohr aka Circuit Des Yeux. Tra le novità troverete anche songwriter straordinari come lo stravagante menestrello Richard Dawson ed il più allineato Will Stratton capace di un nuovo grande album e un chitarrista incredibile come David Grubbs al suo primo lavoro solista (e interamente strumentale) dopo molti anni. Ci sarà spazio anche per una piccola parentesi al femminile con Gold Dime e la straordinaria Sara Ardizzoni aka Dagger Moth. A completare il tutto ecco lo stoner degli Earth (con il compianto Mark Lanegan) e le melodie sghembe e commoventi di Daniel Blumberg fresco di Oscar.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
1. NEW YORK DOLLS: Personality Crisis da ‘New York Dolls’ (1973 – Mercury)
2. BOB DYLAN: Tombstone Blues da ‘Highway 61 Revisited’ (1965 – Columbia)
3. THE ROSE CITY BAND: Seeds Of Light da ‘Sol Y Sombra’ (2025 – Thrill Jockey)
4. TUXEDOMOON: In The Name Of Talent (Italian Western Two) da ‘Desire’ (1981 – Ralph Records)
5. EYELESS IN GAZA: Knives Replace Air da ‘Photographs As Memories’ (1981 – Cherry Red)
6. CODEINE: Cave-In (Live 1993) da ‘What About The Lonely?’ (2013 – Numero Group)
7. FURRY THINGS: Piled High da ‘The Big Saturday Illusion’ (1995 – Trance Syndicate)
8. THE FOR CARNATION: Get And Stay Get March da ‘Fight Songs’ (1995 – Matador)
9. MODERN STUDIES: Brother da ‘The Weight Of The Sun’ (2020 – Fire Records)
10. DAUGHTER: Future Lover da ‘Middle Farm Session’ (2025 – 4AD)
11. MARIAM THE BELIEVER: The String Of Everything da ‘Blood Donation’ (2013 – Repeat Until Death)
12. HORSEGIRL: In Twos da ‘Phonetics On And On’ (2025 – Matador)
13. PJ HARVEY: The Dancer da ‘To Bring You My Love’ (1995 – Island Records)
14. RUSTIN MAN: Night In Evening City da ‘Clockdust’ (2020 – Domino)