Ecco il tredicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa avventura in musica troverete il consueto mix tra novità e ripescaggi
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo tredicesimo episodio stagionale torniamo ad affrontare le consuete scorribande nella storia della musica alternando novità come la conferma dei Mogwai, l’interessante nuovo The Murder Capital e i soliti ispiratissimi The Delines, a capolavori consolidati come i fondamentali Squirrel Bait, i monolitici Bitch Magnet e gli immortali Morphine. Ci sarà spazio anche per i mod The Jam ricordando il batterista Rick Buckler, per un piccolo viaggio nel songwriting a stelle e strisce con l’indimenticabile Elliott Smith e Micah P. Hinson con i suoi musicisti dell’apocalisse e per l’onirico suono dei Bark Psychosis con il loro inaspettato secondo album e dei Mess Esque di Mick Turner (Dirty Three). Il finale sarà appannaggio dell’elettronica cangiante di Ken Gibson sotto il nome di Eight Frozen Modules e delle sublimi traiettorie downtempo di Kruder & Dorfmeister. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Può un disco di una band rimasta insieme per lo spazio di un amen risultare incredibilmente importante per un intera decade di musica? Sembrerebbe strano ma la risposta è sì, anche se dal punto di vista strettamente musicale l’esordio degli Squirrel Bait non è stato così deflagrante ed influente. Ma questa band è entrata nella leggenda perché dal loro scioglimento si sono formate alcune tra le band più importanti del rock alternativo americano degli anni ’90. Gli Squirrel Bait, apparentemente, sono stati semplicemente una delle tante band hardcore dell’epoca. Il gruppo nacque nel 1983 con il nome di Squirrelbait Youth, composto da tre amici che frequentavano la stessa scuola superiore, David Grubbs alla chitarra e voce, Clark Johnson al basso e Rich Schuler alla batteria. Realizzarono due demo, con il secondo che già vedeva un paio di avvicendamenti con Peter Searcy alla voce e Britt Walford alla batteria.
Il tempo di alcuni concerti per avere l’innesto di Brian McMahan come seconda chitarra e Ben Daughtry al posto di Walford dietro ai tamburi. La possibilità data al quintetto di aprire i live di Hüsker Dü, Naked Raygun e Big Black, fu importantissima. Proprio la considerazione di Steve Albini per la band gli aprì le porte della Homestead Records. Un EP eponimo nel 1985 e la pubblicazione del loro unico lavoro sulla lunga (si fa per dire) distanza intitolato Skag Heaven. Questo disco è un ponte ideale tra un’urgenza punk controllata in modo tanto rumoroso quanto melodico, e una forma rock più adulta che tenderà ad oltrepassare gli schemi dello stesso genere musicale. 10 brani (tra cui l’energetica “Virgil’s Return” inserita nel podcast) per un totale di appena 25 minuti e 46 secondi di foga ora trattenuta ora lasciata a briglie sciolte che sarà fondamentale per le esperienze future dei giovanissimi componenti del gruppo. Il chitarrista Brian McMahan andrà a formare gli Slint insieme all’ex batterista dei Bait Britt Walford, mentre l’altro chitarrista David Grubbs formerà i Bastro e i Gastr Del Sol insieme a Jim O’Rourke e collaborerà con Bitch Magnet e Codeine.

Molti hanno sempre associato i Bitch Magnet a David Grubbs, facendoli dunque discendere da quella band cardine che sono stati i Squirrel Bait che hanno aperto il podcast. In realtà Grubbs non è mai stato un vero membro ufficiale dei Bitch Magnet, avendo partecipato solo alle session dell’ultimo album in studio Ben Hur. Ma è vero che ha condiviso spesso e volentieri palco e intenti sonori con gli stessi BM mentre faceva parte dei Bastro. Sooyoung Park (basso e voce), Orestes Delatorre (batteria) e Jon Fine (chitarra) hanno avuto un ruolo fondamentale in quel processo di trasformazione che, a partire dall’hardcore evoluto della fine degli anni ’80, genererà alcune delle più affascinanti forme di post rock (e non solo) sviluppatesi poi nei ’90.
A partire da questo primo EP intitolato Star Booty e prodotto (ancora lui) da Steve Albini, da cui ho voluto proporre la lenta e pesante “Circle K”. Nel 1989 i Magnet aggiungeranno un chitarrista, David Galt, che prenderà parte alla registrazione del loro secondo album, Umber. Per chi vuole ripercorrere tutta la storia della band, nel 2011 la Temporary Residence Limited, ha ristampato in un lussuoso cofanetto composto da 3 CD tutta la loro storia. Non perdetelo.

la recente, prematura, scomparsa del batterista Rick Buckler mi ha fatto tornare indietro nel tempo al 1972, quando a Woking nel Surrey, il chitarrista e cantante Paul Weller e vari amici della scuola da lui frequentata, la Sheerwater Secondary School, creò il primo nucleo di futuri The Jam. La formazione si stabilizzò intorno alla metà degli anni settanta, quando si unirono a Weller il chitarrista Steve Brookes, il batterista Rick Buckler e il bassista Bruce Foxton. Durante i primi anni i quattro suonavano soprattutto cover dei classici rock and roll statunitensi, come quelli di Chuck Berry e Little Richard fino a quando Weller non sentì “My Generation” dei The Who venendo affascinato dallo stile di vita e dalla musica del movimento Mod.
Dopo l’abbandono di Steve Brookes, Weller rimase da solo a curare tutte le parti di chitarra perfezionando un gruppo che, nel 1976, andava un po’ controcorrente rispetto al punk visto il loro abbigliamento ed il loro suono ispirato dai grandi classici del decennio precedente. Nel 1977 il gruppo pubblicò il primo album In the City (che sarà seguito pochi mesi dopo da This Is the Modern World). L’album ebbe un ottimo riscontro, in fondo i volumi alti e le composizioni brevi si adeguavano al punk che stava imperando in quel periodo, nonostante lo stile mod nel vestire. “Time For Truth” è solo un esempio dell’energia del gruppo, energia che Paul Weller è riuscito a mantenere intatta fino ai giorni nostri.

La prima novità del podcast riguarda gli scozzesi Mogwai, che con il loro album di esordio, Young Team, fece scoprire nel 1997 il post-rock anche alla parte della stampa specializzata britannica meno di nicchia. Il loro approccio melodico e quasi Floydiano alternato a squarci estremamente violenti, ha reso il loro suono estremamente riconoscibile. Stuart Braithwaite (chitarra, voce) e Dominic Aitchison (basso) si sono incontrati a Glasgow nel 1991 e quattro anni dopo hanno creato il primo nucleo dei Mogwai con il vecchio compagno di scuola Martin Bulloch (batteria) e John Cummings (chitarra), cui nel 1999 si unirà Barry Burns (chitarra, piano, sintetizzatore, voce). Il nome della band deriva da quello delle creature del film Gremlins, anche se Stuart Braithwaite ha sempre detto che “il nome non ha un vero significato e abbiamo sempre avuto l’intenzione di trovarne uno migliore, ma come per molte altre cose non ci siamo mai riusciti”. La parola mogwai significa “spirito maligno” o “diavolo” in cantonese.
I Mogwai compongono tipicamente lunghi brani strumentali basati sulla chitarra, caratterizzati da contrasti dinamici, linee melodiche di basso e un uso massiccio di distorsioni ed effetti, con rari interventi vocali. Questo percorso li ha portati, nell’ultimo decennio, a comporre alcune colonne sonore e, nel corso di questo 2025, alla pubblicazione del loro undicesimo album in studio intitolato The Bad Fire. Un disco dalla gestazione difficile a causa di alcune traversie personali di alcuni membri del gruppo, che è riuscito in ogni caso a mantenersi coeso dando vita ad un lavoro più che sufficiente che mostra l’immaginario cinematografico degli scozzesi. “18 Volcanoes” ci mostra un gruppo ancora decisamente ispirato.

Andiamo avanti con il podcast parlando di un personaggio e di una band capaci di marchiare a fuoco gli anni ’90 in musica creando un’alchimia sonora assolutamente irripetibile. Un nome entrato nella leggenda, un musicista il cui nome è scolpito nella pietra su una targa a Palestrina e nel cuore di molti di noi. Difficile non ripercorrere la storia di Mark Sandman e dei suoi Morphine senza provare emozione, per le meraviglie e le magie che ci hanno saputo regalare, non ascrivibili a nessun genere se non a loro stessi. Un mondo compositivo che Sandman chiamava low rock, un ambiente sonoro che prendeva il blues, rock, jazz, funk e li plasmava, li modificava in qualcosa di altro che non assomigliava ad altro che ai Morphine: uno dei gruppi più importanti ed originali degli anni ’90.
Tenebrosi, affascinanti, energici. Cure For Pain è stato il loro secondo lavoro, album che sta in mezzo ad una triade affascinante e quasi senza eguali tra Good e Yes. Like Swimming del 1997 era stato il primo album del gruppo a mostrare una qualche debolezza, prima che un maledetto attacco cardiaco si portasse via Sandman in una calda serata del luglio 1999 a Palestrina, vicino Roma, dove i Morphine si stavano esibendo all’interno del festival Nel Nome Del Rock. “Buena” riassume in pochi minuti la potente magia che scaturiva da un gruppo davvero unico capace di creare rock senza il suo strumento principe: la chitarra. Un suono notturno e stordente, vertiginoso e suadente, sensuale e ombroso. Quanto ci manca Mark Sandman, anche se sono passati più di 25 anni da quel maledetto 3 luglio 1999 che ce l’ha portato via.

Ormai non c’è dubbio che se si parla di una certa (nuova) scena chiamata post-punk (ma sarebbe quasi più centrato chiamarla post-post-punk) associata all’Irlanda, il primo nome che viene a mente è quello dei Fontaines D.C. E non potrebbe essere altrimenti visto il successo e la qualità mostrata dai ragazzi di Dublino nei loro tre album pubblicati. Ma i The Murder Capital capitanati dal cantante James McGovern hanno dimostrato nel corso degli anni che in quanto a profondità ed emotività non vogliono rimanere affatto sullo sfondo della scena irlandese. Già dall’esordio When I Have Fears nel 2019 avevano tracciato delle coordinate ben precise: chitarre lancinanti e più abrasive dei concittadini alternate a momenti riflessivi e drammatici. Successivamente i dublinesi si sono presi qualche anno di pausa per lasciar sedimentare nuove suggestioni sonore e iniziare un percorso che dall’oscurità dell’esordio potesse passare verso nuove tracce meno urgenti e più profonde e consapevoli.
Una specie di percorso di “guarigione” evidente già dal titolo del secondo lavoro: Gigi’s Recovery. Un disco più introspettivo, senza dimenticare la capacità di sfornare ritornelli da cantare a squarciagola. Da poco gli irlandesi hanno pubblicato il loro terzo lavoro, Blindness, che non rinnega il più curato predecessore ma che rimette una chitarra rumorosa e un’attitudine più aperta e spavalda al centro delle composizioni. Non mancano i momenti più introspettivi, ma l’attitudine è quella più urgente e potente di raccontare le storture del mondo odierno. Ascoltate “Born Into The Fight” per credere.

Micah P. Hinson, folksinger nato a Memphis ma texano d’adozione, è ormai da anni una delle voci più interessanti del songwriting americano. Le sue liriche autobiografiche, sarcastiche e profonde, si sposano perfettamente con la sua visione cinematica e il suo modo dolcemente violento di interpretare la tradizione americana. Micah si è sempre confermato anche live come grande intrattenitore, raccontando storie della sua vita personale e della grande periferia americana, quella dove il massimo della vita è andarsi a sbronzare al bar o trangugiare un six pack davanti alla tv. Nel 2017 con Micah P. Hinson presents The Holy Strangers, il songwriter ha voluto creare una «moderna opera folk» dove raccontare la storia di una famiglia in tempo di guerra.
Un anno dopo con l’ennesima nuova sigla, The Musicians of the Apocalypse, è riuscito a mettere in musica le idee che si erano accavallate nella sua mente durante i passi che lo hanno portato a compiere il famoso cammino fino a Santiago Di Compostela. Tornato in Texas Micah ha raccolto svariati musicisti che avevano collaborato con lui in passato ed in sole 24 ore ha registrato When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You l’ennesimo album diretto, sincero, in cui il nostro esprime i suoi peccati e cerca la redenzione scoccando frecce che colpiscono sempre il bersaglio. In sette tracce registrate alla vecchia maniera, rigorosamente con equipaggiamento analogico, Hinson ha mostrato ancora una volta la sua abilità nel saper miscelare perfettamente la tradizione country-folk con il songwriting più contaminato e moderno, stavolta chiudendo con i 9 minuti della strumentale “The Skulls Of Christ” dove condensa tutti gli orrori dei nostri tempi. “I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back” è il brano che ci aveva instradato verso il nuovo cammino di Micah.

Ho sempre avuto un debole, lo ammetto, per i songwriters riservati, timidi, ipersensibili, personaggi come Nick Drake o Tim Buckley nel passato, oppure come Mark Linkous, Daniel Johnston, Jason Molina e Vic Chesnutt nel presente. Sono passati clamorosamente ventuno anni da quel tremendo 21 ottobre 2003 in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, aveva deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale. Da quel momento è iniziata la parabola straordinaria di un artista sensibile e meraviglioso, interrotta soltanto da una tragedia personale enorme.
Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, Smith era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. Either / Or, pubblicato proprio in questi giorni di fine febbraio ben 28 anni fa, è stato il suo terzo lavoro in studio, e “2:45 AM” è tuttora una delle sue cose più belle in assoluto. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.

Personaggio straordinario Willy Vlautin. Capace di dare vita e forma con la sua voce, la sua chitarra e i suoi testi ad una splendida creatura come i Richmond Fontaine e a scrivere sei romanzi di successo. Non contento, dopo lo scioglimento di un’affermata realtà dell’alt-country come i Richmond Fontaine, Vlautin ha creato una nuova entità chiamata The Delines rivestendo a nuovo la splendida voce di Amy Boone, corista negli ultimi tour della sua band precedente. Il quintetto di Portland, Oregon, con Mr.Luck & Ms.Doom è arrivato al suo quarto capitolo in studio che perfeziona l’alchimia tra country e soul degli album precedenti. Storie di perdenti, di persone che camminano sempre sul bordo rischiando di perdere l’equilibrio. Un’umanità raccontata in maniera empatica ed evocativa, con tutti i suoi languori e le sue debolezze, trasportata lungo la corrente della vita.
Queste storie scritte da Vlautin vengono interpretate da straordinari musicisti: ci sono le tastiere, la tromba e gli arrangiamenti di un Cory Gray in stato di grazia, il basso soul di Freddy Trujillo, le misurate percussioni di Sean Oldham e un piccolo gruppo di altri musicisti che si sono uniti ai cinque come Kyleen e Patty King a violino e viola, Collin Oldham al cello e Noah Bernstein al sax. La voce di Amy Boone è più profonda ed empatica che mai (ascoltate la splendida “JP & Me”), come se il suo drammatico incidente d’auto del 2016 e la difficoltà della riabilitazione l’avessero resa ancora più conscia del dolore provato dai protagonisti dei racconti di Vlautin e capace di dare profondità ai flussi sonori caldi, avvolgenti e raffinati creati dal gruppo. Il disco non aggiunge nulla di nuovo a quello che il gruppo ha già proposto in passato, è semplicemente un altro album evocativo, malinconico e bellissimo dei The Delines.

Nell’attesa della pubblicazione del loro secondo lavoro Jay Marie, Comfort Me prevista per fine marzo, voglio proporvi un duo australiano estremamente interessante chiamato Mess Esque, formato da una nostra vecchia conoscenza come il chitarrista Mick Turner (Dirty Three) e la cantante Helen Franzmann (McKisko). I due propongono una miscela avvolgente di suoni, una sorta di affascinante diario di viaggio fatto da vagabondaggi inquieti e sonnambulismo. Dopo tanti anni a comporre musica quasi esclusivamente strumentale, Turner aveva bisogno di una voce per le sue composizioni e nel 2019 gli era stata presentata Helen da un amico comune. Con il nome Mckisko, Helen aveva pubblicato tre album negli ultimi 12 anni, collaborando e andando in tournée con diversi musicisti australiani.
la composizione del disco è stata paradossale. Helen viveva a Brisbane, Mick a Melbourne. Avevano iniziato a mandarsi idee avanti e indietro con il progetto di incontrarsi finalmente da qualche parte nel 2020 e registrare ma la pandemia li ha obbligati ad una collaborazione a distanza. La chitarra, il basso e l’organo di Mick Turner erano una tavolozza dove la Franzmann ha creato i testi, costringendo anche il suo partner musicale a molte correzione, ma creando un insieme estremamente interessante e avvolgente. La cosa divertente è che all’uscita del disco autointitolato, Mess Esque, i due non si erano mai incontrati di persona! ma dalla sinergia e dall’affiatamento dimostrato da brani splendidi ed evocativi come la “Wake Up To Yesterday” inserita in scaletta nessuno lo avrebbe potuto immaginare.

Gli incubi e sogni dei Bark Psychosis hanno ispirato il critico Simon Reynolds a coniare uno dei termini più abusati in musica negli anni ’90, “post-rock”. E se la mente quando si parla della band di Graham Sutton (chitarra e voce), Daniel Gish (tastiere e piano), John Ling (basso e campionatore), e Mark Simnett (batteria e percussioni), va sempre a vagare nella notte dei sobborghi londinesi descritta in capitoli cinematici di rara suggestione onirica in quel tesoro nascosto chiamato Hex (1994), senza ombra di dubbio uno dei miei dischi della vita, o ai meravigliosi singoli che lo avevano preceduti (che invece presentavano un sottobosco fatto di suoni più dissonanti e movimentati), forse non molti ricordano l’inaspettato ritorno della band sul luogo del delitto 10 anni più tardi con Codename: Dustsucker.
Certo, il paragone con il predecessore era ingombrante e davvero troppo pesante, ma ecco tornare nelle foto del libretto di copertina, i paesaggi industriali urbani, desolanti e crepuscolari che avevano ispirato l’artwork di Hex. La lineup prevede un solo altro membro originario, Mark Simnett, oltre a Sutton, ma dietro ai tamburi siede Lee Harris (Talk Talk e O’Rang), altro pezzo grosso di cotanta musica immaginifica. Ascoltando “The Black Meat”, il suo arpeggio di chitarra accompagnato dal piano, e i contrappunti percussivi di Harris, è come se venissero azzerati i 10 anni di distanza, e una lacrimuccia si fa strada tremante, tratteggiando un paesaggio sonoro che provoca la catarsi dell’anima.

Ho parlato molte volte (purtroppo per voi) della scena estremamente frammentata degli anni ’90 che va sotto il nome di post-rock. Calderone in cui sono confluiti gruppi ed artisti anche di diversa provenienza e caratteristiche mantenendo come comune denominatore la volontà di varcare e superare in molti modi diversi gli steccati e le frontiere della musica rock. Se negli USA il post-rock è nato e vissuto soprattutto sull’asse Louisville/Chicago, il materiale del genere uscito al di fuori di queste due città è stato estremamente interessante a livello qualitativo. Da Austin nel Texas, che fu regione fondamentale per la psichedelia negli anni ’60, erano arrivati i Furry Things formati da Ken Gibson (voce, chitarra e tastiere), Cathy Shive (basso e voce), Chris Michaels (tastiere) e Charlie Woodburn (batteria).
Il loro esordio, nel 1996, si chiamava The Big Saturday Illusion, disco che mostrava una psichedelia bisbigliata e completamente immersa in una densa nuvola di feedback che esalta le progressioni melodiche ed armoniche. Il gruppo si scioglierà nel 1998 dopo un secondo album quasi irriconoscibile che strizzava l’occhio a krautrock e Stereolab. L’amore di Ken Gibson per l’elettronica, già evidente nei due EP dei Furry Things pubblicati dopo il debutto, trova una valvola di sfogo importante nel suo progetto solista chiamato Eight Frozen Modules. L’esordio The Confused Electrician (1998) è stato un lavoro interessante che spaziava dal drum n bass al dub, tra musica industriale ed echi new wave come dimostra la “Short Dub 2” inserita in scaletta.

Andiamo a chiudere il podcast in una maniera piuttosto inusuale, ma visto che abbiamo parlato di drum’n’bass mi è tornato in mente un album che ha festeggiato il venticinquennale e che all’epoca aveva lasciato un’impronta abbastanza profonda. Il duo austriaco composto da Peter Kruder e Richard Dorfmeister e chiamato semplicemente Kruder & Dorfmeister, deve la sua fama soprattutto ai loro remix di brani pop, hip-hop, trip-hop e drum’n’bass. Il duo viennese ha creato la propria etichetta G-Stone Recordings nel 1993, esordendo subito con un EP intitolato G-Stoned che ottiene subito un notevole successo grazie a brani come “High Noon” e alla copertina che richiama Bookends di Simon & Garfunkel.
Dopo l’uscita nel 1996 di DJ-Kicks: Kruder & Dorfmeister, i viennesi fanno il botto due anni più tardi con il doppio lavoro The K&D Sessions che comprende una selezione di remix prodotti nei cinque anni precedenti da Richard Dorfmeister, Peter Kruder o dai due insieme. L’album contiene anche due produzioni originali. Dorfmeister ha dichiarato di aver lavorato circa due settimane per ogni remix. Brani di Depeche Mode, Bomb The Bass, David Holmes, Lamb, Roni Size, Rockers Hi-Fi ed altri vengono plasmati e cuciti insieme in sonorità avvolgenti e atmosferiche rivestendo il termine downtempo. Il remix di “Gone”, brano di David Holmes, è stata la mia scelta per chiudere il podcast.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire partendo dal ricordo di un grande come David Johansen per poi andare ancora più indietro con un Dylan di annata prima di un andirivieni tra il nuovo Rose City Band, un piccolo excursus nella scura new wave di inizio ’80 con Tuxedomoon e Eyeless In Gaza, lo slowcore dei Codeine e il post rock di Furry Things di cui abbiamo appena accennato. Ancora novità interessanti con un EP dal vivo dei Daughter e l’intrigante nuovo Horsegirl prima di chiudere con l’incantevole voce di Mariam The Believer, il trentennale di uno dei capolavori di PJ Harvey e le suggestioni oniriche di Rustin Man.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
1. SQUIRREL BAIT: Virgil’s Return da ‘Skag Heaven’ (1986 – Homestead Records)
2. BITCH MAGNET: Circle K da ‘Star Booty’ (1988 – Glitterhouse Records)
3. THE JAM: Time For Truth da ‘In The City’ (1977 – Polydor)
4. MOGWAI: 18 Volcanoes da ‘The Bad Fire’ (2025 – Rock Action Records)
5. MORPHINE: Dawna / Buena da ‘Cure For Pain’ (1993 – Rykodisc)
6. THE MURDER CAPITAL: Born Into The Fight da ‘Blindness’ (2025 – Human Season Records)
7. MICAH P. HINSON And THE MUSICIANS Of The APOCALYPSE : I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back da ‘When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You’ (2018 – Full Time Hobby)
8. ELLIOTT SMITH: 2:45 AM da ‘Either / Or’ (1997 – Kill Rock Stars)
9. THE DELINES: JP & Me da ‘Mr. Luck & Ms. Doom’ (2025 – Decor Records)
10. MESS ESQUE: Wake Up To Yesterday da ‘Mess Esque’ (2021 – Drag City)
11. BARK PSYCHOSIS: The Black Meat da ‘Codename: Dustsucker’ (2004 – Fire Records)
12. EIGHT FROZEN MODULES: Short Dub 2 da ‘The Confused Electrician’ (1998 – City Slang)
13. KRUDER & DORFMEISTER: Gone (David Holmes remix – K&D Session™) da ‘The K&D Sessions™’ (1998 – !K7)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) May 28, 2025