Ecco il settimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete alcune meraviglie assortite e un gran finale tutto italiano
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo settimo episodio stagionale parleremo di due meraviglie dell’indie rock psichedelico come Built To Spill e Arbouretum, incontreremo l’eclettismo sonoro dei The God In Hackney, e ascolteremo le storie di un’umanità sempre in bilico dei The Delines. Il nuovo The Cure mi ha colpito così tanto che ho voluto tornare indietro al 1980, mentre è sempre piacevole riascoltare la sinergia scandinava di Bol & Snah e gli strumenti autocostruiti di Buke And Gase. Ascolteremo anche il nuovo splendido Mount Kimbie, la bravura incredibile dei The Books nell’assemblaggio sonoro e il pop sghembo dei Dirty Projectors prima di riascoltare il meraviglioso folk blues di Terry Callier e tornare indietro agli anni ’60 con The Zombies. Il finale è appannaggio di un grande musicista italiano come Vittorio Nistri: prima con il suo progetto Deadburger Factory, poi con un nuovissimo album che naviga meravigliosamente in paesaggi sonori tra sperimentazione e avanguardia insieme a Filippo Panichi. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Prima di partire con questo viaggio in musica potete effettuare il download del podcast anche nella versione a 320 kb/s semplicemente cliccando sul banner qui sotto.
Un gran personaggio Doug Martsch. Dalla sua base di Boise, Isaho, era partito con il noise dei Treepeople, per poi creare la ragione sociale Built To Spill, che in origine doveva essere una formazione che accoglieva intorno a lui diversi musicisti in continua rotazione. In realtà nel corso degli anni la lineup si era stabilizzata come un trio che vedeva, oltre alla voce e alla chitarra di Martsch, il basso di Brett Nelson e la batteria di Scott Plouf. Il gruppo ha trovato una perfetta alchimia sonora nel 1997 con Perfect From Now On, dove si intersecano la loro abilità melodica, il gusto per la psichedelia e una chitarra che a volte si lascia andare in lunghe e lancinanti maratone soliste.
Il successivo Keep It Like A Secret ne confermava le coordinate sonore rilanciandone stavolta anche le aspettative commerciali. Sperimentazione all’interno di melodie di facile presa, ritornelli abbacinanti, psichedelia e indie-rock a braccetto. Per sugellare questo momento di grande forma e ispirazione, il gruppo nel 2000 fa uscire Live, dove il gruppo sul palco esprime pienamente tutto il suo straordinario potenziale. All’interno potete ascoltare una versione strepitosa di “Cortez The Killer” di Neil Young e la “I Would Hurt A Fly” inserita nel podcast. Nel 2012 Martsch ha di nuovo scombussolato le carte cambiando collaboratori. L’attuale formazione, che ha fatto uscire due anni fa l’ottimo When the Wind Forgets Your Name, vede Josh Lewis al piano e una sezione ritmica con João Casaes al basso e Lê Almeida alla batteria.
Un gruppo che si è sempre ispirato ai classici e che, disco dopo disco, è riuscito a diventare a sua volta un classico. Questo è quello che mi sono sentito di dire su Dave Heumann e i suoi Arbouretum dopo aver ascoltato il loro Coming Out Of The Fog pubblicato nel 2015. Il gruppo di Baltimora con quel disco aveva grosso modo ricalcato il sound del loro precedente The Gathering, con quel perfetto e ormai riconoscibile mix tra tradizione folk, psichedelia, stoner, blues e un certo cantautorato attinto a piene mani da quel Will Oldham di cui il leader della band è stato fido scudiero per anni. La scrittura è rimasta sempre fluida ed ispirata, le chitarre affilate, robuste e corpose, ma allo stesso tempo Heumann, insieme ai suoi fidati Corey Allender (basso), J.V. Brian Carey (batteria), e Matthew Pierce (tastiere e percussioni), era riuscito a deviare il corso della sua creatura accorciando gli assoli e aggiornando la tradizione.
In un brano come “World Split Open”, una delle tracce migliori del lotto, possiamo trovare addirittura tracce di Thin White Rope. Pur essendo dipendenti da modelli ormai stabiliti, gli Arbouretum avevano trovato una propria personalità, spiccata e riconoscibile, una matura classicità capace di rendere la band davvero unica. Peccato che da quel disco ai giorni nostri la band abbia saputo sfornare prima il debole Song Of The Rose per poi riprendersi quattro anni fa con Let It All In. Chissà se Heumann e compagni saranno in grado di tornare ai livelli di eccellenza cui ci avevano abituato.
Recentemente i contatti della mia “bolla” social non hanno fatto altro che postare (fortunatamente non tutti) il nuovo album dei The Cure, Songs Of A Lost World, uscito a 16 anni di distanza dal precedente 4:13 Dream. Ora, senza nulla voler togliere alla storia di un gruppo così importante nella storia degli ascolti degli amanti del rock, francamente non mi è sembrato un disco così importante, una volta passata la botta di adrenalina avuta nel riascoltare una band del genere dopo così tanti anni di silenzio. Così, da buon bastian contrario, ho voluto riavvolgere il nastro e tornare alle origini di un gruppo che, in ogni caso, ha saputo mutare pelle restando allo stesso tempo sempre estremamente riconoscibile, e non è un pregio da poco.
Glam, post-punk, new wave. Robert Smith e compagni hanno significato molto nella storia di un certo rock alternativo, che proprio dall’uscita di Seventeen Seconds, nel 1980, prendeva sfumature più dark andando ad impattare sull’immaginifico di un’intera generazione. Questo porterà il tastierista Matthieu Hartley alla decisione di uscire dal gruppo, ma Robert Smith insieme a Simon Gallup e Laurence Tolhurst proseguiranno nel loro percorso a tre che terminerà nel 1982 con Pornography. “A Forest”, che qui nel podcast troviamo nella versione dal vivo tratta dal loro primo live ufficiale Concert: The Cure Live registrato nel 1984, è stato il primo singolo estratto dall’album e un brano cardine nell’evoluzione del gruppo.
Questo è il nostro terzo album. È un disco che risponde alle ansie del momento: ecologia, isolamento, estinzione, tecnologia, l’appiattimento della storia, la morsa sclerotica di una cultura impantanata in citazioni, riferimenti e immaginazione svuotata.” Così i The God In Hackney hanno provato a raccontare in breve The World In Air Quotes, disco purtroppo quasi ignorato dalle nostre parti (nonostante abbiano fan dal nome importante come Mike Watt o Thurston Moore) ma che ho trovato sorprendentemente interessante e coinvolgente. Il gruppo è composto dal nucleo centrale: Andy Cooke, Dan Fox, Ashley Marlowe e Nathaniel Mellors, ampliando poi la propria formazione includendo i polistrumentisti e compositori americani Eve Essex (Eve Essex & The Fabulous Truth, Das Audit, Peter Gordon & Love of Life Orchestra, Peter Zummo, Liturgy) e Kelly Pratt (Father John Misty, David Byrne/St Vincent, Beirut e Lonnie Holley tra i tanti).
Dan Fox, Nathaniel Mellors e Andy Cooke si sono conosciuti alla scuola d’arte di Oxford, a metà degli anni Novanta, senza però all’epoca fare musica insieme, ma il gruppo esiste da ben 25 anni, anche se era nato come progetto parallelo dei Socrates That Practices Music, fondati da Cooke nel 1998 a Londra. Dunque The God In Hackney è un progetto ad ampio respiro, che pur partendo da basi art rock che ricordano a tratti alcuni gruppi progressive del passato, ingloba diversi generi musicali, dal jazz al rock, risultando eclettici e mai banali, e riuscendo a non sfociare mai nell’onanismo strumentale, anzi, intrigando con gli intrecci di fiati, ritmi come nella cinematica strumentale “Interstate 5”. Dice Dan Fox: “Lavorare con Eve e Kelly ha ampliato il nostro senso di ciò che è musicalmente possibile con The God in Hackney. Un’abilità che abbiamo acquisito alla scuola d’arte è stata quella di rimanere aperti a qualcosa di inaspettato durante il processo di scrittura, piuttosto che cercare di controllarne ogni aspetto. Fare arte è più eccitante quando non si sa con precisione cosa succederà”. Ed è proprio l’inaspettato ad essere senza dubbio uno dei segreti di questo album intrigante.
Personaggio straordinario Willy Vlautin. Capace di dare vita e forma con la sua voce, la sua chitarra e i suoi testi ad una splendida creatura come i Richmond Fontaine e a scrivere sei romanzi di successo. Non contento, dopo lo scioglimento di un’affermata realtà dell’alt-country come i Richmond Fontaine, Vlautin ha creato una nuova entità chiamata The Delines rivestendo a nuovo la splendida voce di Amy Boone, corista negli ultimi tour della sua band precedente. Il quintetto di Portland, Oregon, con The Sea Drift è arrivato al suo terzo capitolo in studio che perfeziona l’alchimia tra country e soul dei due album precedenti. Storie di perdenti, di persone che camminano sempre sul bordo rischiando di perdere l’equilibrio. Un’umanità raccontata in maniera empatica ed evocativa, con tutti i suoi languori e le sue debolezze, trasportata lungo la corrente del mare.
Queste storie scritte da Vlautin vengono interpretate da straordinari musicisti: ci sono le tastiere, la tromba e gli arrangiamenti di un Cory Gray in stato di grazia, il basso soul di Freddy Trujillo, le misurate percussioni di Sean Oldham e un piccolo gruppo di altri musicisti che si sono uniti ai cinque come Kyleen e Patty King a violino e viola, Collin Oldham al cello e Noah Bernstein al sax. La voce di Amy Boone è più profonda ed empatica che mai (ascoltate l’apertura “Little Earl”), come se il suo drammatico incidente d’auto del 2016 e la difficoltà della riabilitazione l’avessero resa ancora più conscia del dolore provato dai protagonisti dei racconti di Vlautin e capace di dare profondità ai flussi sonori caldi, avvolgenti e raffinati creati dal gruppo. The Sea Drift mantiene quello che la copertina promette: un album assolutamente evocativo, malinconico e bellissimo. Il 14 febbraio 2025 uscirà il nuovo Mr.Luck & Ms.Doom.
Nel 1995 l’unione tra la batteria non convenzionale di Tor Haugerud, il synth di Ståle Storløkken, la voce cristallina e i campionamenti di Tone Åse (moglie di Storløkken) e il sassofono di Tor Yttredal ha dato vita al progetto BOL, un foglio bianco dove i quattro musicisti hanno iniziato a modellare e dipingere il proprio suono tra jazz, improvvisazione e una personale forma di psichedelia elettronica. Qualche anno più tardi, ecco la collaborazione con SNAH, ovverosia il chitarrista dei Motorpsycho, Hans Magnus ”Snah” Ryan. Il loro primo album con il nome di BOL & SNAH, uscito nel 2015, ha messo subito in chiaro la loro dinamica e il loro magniloquente scenario musicale sin dall’epicità classica della prima traccia intitolata “The Sidewalks”, dove la voce della cantante Tone Åse svetta raggiungendo vette di grande lirismo e ricordando alcuni gruppi prog del passato che si avvalevano di voci femminili, uno su tutti, i Curved Air.
La sua controparte chitarristica, Snah, può invece sfoderare tutto il suo amore per l’hard rock progressivo dei 70 nei riffoni hard-blues capaci di far infrangere alte onde schiumanti sugli scogli. Inutile negare che a volte il classicismo della proposta viene fuori appesantendo il tutto e rischiando di portare l’opera a fondo, ma i quattro musicisti riescono spesso a mascherarlo con un riuscito gioco di luci ed ombre come nell’incedere muscolare della “Briefing” inserita nel podcast, condotta da un notevole lavoro di Tor Haugerud dietro ai tamburi. So? Now? è un disco di notevole libertà espressiva che se da una parte sviluppa il rapporto tra natura e progresso, dall’altra trova un equilibrio indomito tra classicità epica e tensioni sperimentali.
Visto che i primi podcast del 2025 saranno appannaggio presumibilmente della mia personalissima classifica (cosa a cui, perdonatemi, non riesco a fare a meno), ho diradato le novità discografiche da inserire nei podcast. Stavolta ho fatto due eccezioni. La prima è per un progetto che è sempre stato estremamente interessante, quello chiamato Mount Kimbie messo a punto da Kai Campos e Dom Maker che dal 2008 hanno via via saputo inserire nuove suggestioni nella loro musica, firmando quattro anni più tardi, un contratto con la prestigiosa Warp Records. Per il quarto album i due hanno voluto espandere ancora i propri orizzonti, aggiungendo in pianta stabile la cantante e tastierista Andrea Balency-Béarn e il batterista Marc Pell che già avevano collaborato con loro on stage.
Il risultato è The Sunset Violent, un disco scritto e registrato a Yucca Valley, in California, e terminato a Londra, i cui umori risentono del tempo trascorso nel deserto californiano. Le stratificazioni elettroniche stavolta lasciano il passo alla chitarra di Campos, mai così presente e capace di portare il quartetto in un’orbita pop davvero sublime. Il tutto con la ciliegina sulla torta della collaborazionecon King Krule, che canta da par suo in due tra i migliori episodi del disco. Il primo singolo estratto, “Dumb Guitar”, è anche il brano che ho scelto per l’inserimento nel podcast, perfetto esempio di come i Mount Kimbie siano riusciti a sfiorare la perfezione in ambito electro-pop senza rinunciare alle suggestioni oniriche che li hanno resi famosi.
C’era una volta (iniziano così quasi tutte le fiabe, almeno ai miei tempi) una ragazza ed un ragazzo, i loro nomi erano Arone Dyer e Aron Sanchez. I due iniziarono presto a suonare in alcune band post punk a Brooklyn dove vivevano, ma ad un certo punto sentirono il bisogno di allargare i loro orizzonti. Nel 2007 decisero quindi di formare una band tutta loro ma avevano una brutta gatta da pelare: pur essendo solo due, volevano suonare in modo totalmente nuovo e come un intera band e, non bastasse, Arone (la fanciulla) aveva un problema cronico al tunnel carpale. Il loro dilemma sembrava di difficile risoluzione ma i due non si persero d’animo e si misero a costruire da soli i loro strumenti. Da questa curiosa catena di montaggio a gestione familiare uscì fuori prima un ukulele baritono a sei corde collegato ad alcuni distorsori autocostruiti (il BUKE, suonato da Arone), poi un curioso ibrido tra chitarra e basso assemblato mettendo insieme alcuni pezzi di una Volvo degli anni ’60 e dei tubi idraulici (il GASE, suonato da Aron). Va da se che anche il nome della nuova band era bello e pronto: Buke And Gase.
Il disco di esordio dove i due hanno iniziato ad affinare il loro folk-indie-pop di avanguardia si intitolava General Dome, pubblicato ormai undici anni fa dalla Brassland dei fratelli Dessner (The National). “Houdini Crush” apre l’album come meglio non si potrebbe: i loro strani strumenti suonano come chitarre acustiche dal volume incredibilmente gonfiato e pompato, le percussioni a piede dettano il ritmo, la Dyer mostra una notevole padronanza della voce mentre i loro virtuosismi, vista la particolarità degli strumenti, si evidenziano soprattutto negli arrangiamenti. I due poi non hanno avuto la carriera che ci si poteva aspettare, in ogni caso A Record Of uscito quattro anni fa, pur non brillando, non era poi malaccio.
Continuiamo il podcast con suoni che possiamo definire “poco convenzionali”. Nel 1999 il chitarrista Nick “Zammuto” Willscher e il violoncellista Paul De Jong si sono trovati a condividere lo stesso appartamento a NYC trovando terreno musicale fertile nell’amore per la tradizione folk americana e per l’uso di sampling e field recordings. I due decisero di fare musica insieme sotto il nome di The Books, trovando l’appoggio dell’etichetta Tomlab incuriosita dalle sperimentazioni “cut and paste” dei due. De Jong e Zammuto non si trovavano sicuramente nella migliore situazione logistica per comporre i brani dell’esordio (De Jong tra New York e l’Olanda, Zammuto tra Maine e Georgia) ma sono riusciti in una sorta di miracolo a distanza pubblicando nel corso del 2002 il primo capitolo della loro avventura intitolato Thought For Food.
Poco dopo l’uscita dell’esordio, la band si trasferì a North Adams, nel Massachusetts, vicino a dove Zammuto si era laureato al Williams College nel 1999, studiando chimica e arti visive iniziando a registrare The Lemon Of Pink. La varietà delle suggestioni sonore andava di pari passo con la struttura compositiva, dove i due si sono divertiti con i loro giochi di addizione e sottrazione, tra field recordings, samples di voci che spuntano ovunque, frammenti di folk e altri strumenti ricomposti con maestria. Un collage di suoni e voci che potrebbe sembrare dispersivo, ma che invece è riuscito a convincere con la sua intelligente folktronica, confermando i The Books come alfieri di un’eccitante maniera di gestire una vasta biblioteca sonora. “The Lemon Of Pink Part I” è solo uno dei 14 eccitanti episodi, anche grazie alla voce di Anne Doerner, che compongono il secondo di una parabola discografica di incredibile valore prima dello scioglimento della ragione sociale avvenuto nel 2010.
David Longstreth dopo la rottura con l’ex compagna sul palco e nella vita Amber Coffin era riuscito nel 2018 con Lamp Lit Prose a ritrovare l’ispirazione per condurci sulle sue strade pop-rock sghembe e poco convenzionali, illuminato da quelle bolle rosse e blu che già campeggiavano nel 2009 sulla copertina di uno dei suoi album più riusciti a nome Dirty Projectors: Bitte Orca. Accompagnato da Juliane Graf (trombone), Mauro Refosco (percussioni), Nat Baldwin (basso, tastiere), Mike Johnson (batteria) e molti altri musicisti (tra cui anche Tyondai Braxton), Longstreth aveva messo in campo tutte le sue ispirazioni più riuscite, tra indie folk e una vena black. Anche le collaborazioni dimostrano l’equilibrio della proposta, tra Robin Pecknold (Fleet Foxes) e Syd, tra indie-folk e soul.
Le sue armonie complesse e caleidoscopiche fanno centro spesso e volentieri, posizionandosi con un equilibrio mirabile al confine perfetto tra mainstream e sperimentazione, senza mai risultare banale. È un disco che ci fa riappacificare con il Longstreth pieno di carica vitale, espressa con sovrapposizioni di voci, chitarre, archi e fiati in uno splendido caleidoscopio sonoro. Ascoltate per credere la trascinante “That’s A Lifestyle” inserita nel podcast. Questo, purtroppo, è anche stato l’ultimo lavoro pubblicato dal gruppo che ormai è in silenzio da ben 6 anni.
Terry Callier, nato a Chicago nel 1945, è stato tra i primi nel periodo a cavallo tra i ’60 ed i ’70 ad unire il folk ed il soul grazie alla sua splendida chitarra e alla sua voce calda e passionale. Nel 1972 l’artista pubblicò il suo secondo album intitolato Occasional Rain. Nonostante il discreto successo del singolo “Ordinary Joe”, le vendite non furono quelle sperate in partenza, anche se l’album ebbe un più che discreto ritorno da parte della critica. La musica di Terry Callier era un mix di ricercatezza e accessibilità ma all’epoca il grande pubblico preferiva seguire le classiche linee guida della Motown. Nel 1983 Callier si ritirò dalle scene per dedicarsi agli studi di programmazione informatica, venne assunto dalla University of Chicago e frequentò le scuole serali al college per arrivare a laurearsi in sociologia.
Negli anni ’90 si era completamente reinventato, collaborando con artisti della scena trip-hop come i Massive Attack (cui aveva prestato la voce per una canzone meravigliosa come “Live With Me”), e pubblicando un album nuovo a ben diciannove anni dal precedente come il meraviglioso TimePeace da cui ho tirato fuori “Timepeace / No One Has To Tell You / Build A World Of Love”. Proprio il successo di questo grande ritorno (che si aggiudicò il premio Time For Peace delle Nazioni Unite per migliore impresa artistica che contribuiva alla pace nel mondo) rivelò ai suoi colleghi della University of Chicago la sua parallela carriera di musicista, e come risultato ci fu (incredibilmente) il licenziamento in tronco. La sua incredibile storia purtroppo si è interrotta nel 2012 quando un brutto male ce lo ha portato via a soli 67 anni.
Facciamo un triplo salto mortale all’indietro nel tempo, per andare a trovare uno dei gruppi più importanti della scena beat britannica degli anni ’60. Capitanati dal talentuoso tastierista Rod Argent e dal cantante Colin Blunstone, i The Zombies nascono nel 1961 a St Albans, nell’Hertfordshire. E’ stato proprio il modo di suonare raffinato di Argent a distinguerli dagli altri gruppi beat dell’epoca. Dopo aver vinto un concorso promosso dalla Decca Records (etichetta famosa, tra l’altro, per aver rifiutato un contratto ai Beatles degli esordi), gli Zombies videro finalmente pubblicato nel 1964 il loro primo singolo “She’s Not There”, che divenne un successo mondiale e raggiunse il primo posto nelle classifiche americane, trainando il loro esordio autointitolato che venne pubblicato l’anno successivo.
Un nuovo contratto con la CBS e un nuovo album che avrebbe dovuto lanciare il gruppo in maniera definitiva. Il condizionale è d’obbligo in quanto nonostante le proficue sessioni di registrazione (nonostante un budget limitato) presso gli EMI Studios (gli attuali Abbey Road Studios), Odessey And Oracle venne pubblicato nell’indifferenza quasi totale di critica e pubblico, provocando di fatto lo scioglimento della band. In realtà l’album avrebbe dovuto chiamarsi Odyssey And Oracle ma il titolo con cui il disco è entrato nella storia fu il risultato di un errore del disegnatore della copertina, Terry Quirk, amico del bassista Chris White. La band cercò in qualche modi di camuffare lo sbaglio al momento della pubblicazione sostenendo che l’errore di scrittura fosse intenzionale. “Care of Cell 44” inserito nel podcast è stato il primo singolo estratto e la dimostrazione delle grandi capacità di scrittura di Rod Argent.
Quando quattro anni fa Vittorio Nistri mi scrisse su Facebook perché voleva mandarmi il nuovo album dei suoi Deadburger Factory ho provato orgoglio ed imbarazzo. Un imbarazzo stupito e misto a felicità perché Vittorio mi aveva confessato di aver scoperto Chris Forsyth, 75 Dollar Bill e Lovexpress grazie alle mie recensioni su OndaRock, e che per questo aveva pensato a me. Insomma, la cosa mi aveva davvero inorgoglito e reso felice, anche perché La Chiamata non è stato semplicemente uno dei dischi italiani più belli e compiuti usciti nel 2020 ma, già dallo straordinario artwork disegnato da un mostro sacro come Paolo Bacilieri, mostrava un voluto cambio di marcia rispetto al mercato musicale che ormai da anni tende verso la (quasi) eliminazione del supporto fisico. Il connubio immagini-musica è da sempre importantissimo, e quello che i nativi digitali stanno perdendo è proprio l’attenzione e lo sforzo di comprendere, di approfondire.
Il disco, corredato da due copertine di cui una stampata sul cofanetto-raccoglitore, comprendeva anche un libretto di 68 pagine contenente, oltre ad innumerevoli foto scattate durante le registrazioni ed altre informazioni, una sorta di rivista immaginaria chiamata Poor Robot’s Almanack le cui tematiche si intrecciano con quelle del disco: il crescente isolamento nelle nostre esistenze, l’essere soli anche se teoricamente in posti affollati: il social network come il centro commerciale. Oltre al nucleo storico della band fiorentina (Vittorio Nistri: tastiere, elettronica, testi, Simone Tilli: voce, Alessandro Casini: chitarra e Carlo Sciannameo al basso) hanno collaborato al disco moltissimi altri splendidi musicisti (Enrico Gabrielli, Silvia Bolognesi e molti altri) tra cui otto batteristi (tra i migliori che abbiamo in Italia) che a coppie hanno esaltato l’elemento percussivo e sciamanico al centro dell’opera. Un disco che si poneva al confine tra songwriting e sperimentazione, una varietà di linguaggio perfettamente a fuoco come nella clamorosa “Blu Quasi Trasparente” inserita nel podcast e che chiude l’intero lavoro.
Quattro anni dopo Vittorio Nistri lo ha fatto di nuovo. Non solo ha composto e realizzato un album meraviglioso insieme a Filippo Panichi, ma me lo ha anche voluto donare in una splendida versione in doppio vinile con tre facciate incise ed un meraviglioso booklet di ben 23 pagine! Vittorio Nistri – Filippo Panichi è uno dei migliori album pubblicati nel corso del 2024 da artisti italiani, un suono molto diverso dai Deadburger Factory, che mostra il lato più sperimentale e meno “rock” di Nistri grazie all’apporto di un musicista più avvezzo a certe sonorità come Panichi. Il disco è avvincente nel suo mescolare atmosfere lisergiche, flussi di avanguardia, panorami immaginifici quasi di memorie kraut.
C’è anche l’apporto di una sorta di ensemble di musica da camera (violoncello, viola, contrabbasso, trombone, clarinetto, sassofono), con splendidi musicisti come Enrico Gabrielli (Calibro 25, The Winstons), Silvia Bolognesi (Art Ensemble of Chicago), Giulia Nuti, Pietro Horvath, tutti tesi nel creare atmosfere di avanguardia e sperimentazione mai fini a loro stesse. Bello perdersi nei solchi di una musica costruita con passione, nelle pagine del libretto con splendide illustrazioni di Beppe Stasi, per un connubio suoni-immagini che stupisce e convince, come nella splendida “La Risacca Dell’Alba” che chiude questo podcast. Un disco straordinario che sfugge a qualsiasi catalogazione, creando un microcosmo nuovo e immaginifico tutto da esplorare, sicuramente da inserire nella lista dei migliori del 2024, non solo italiani.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane per l’ultimo podcast del 2024 quando ascolterete una session live di un gruppo britannico importante come i Television Personalities, ritroverete il genio psichedelico di Syd Barrett, ascolterete le storie degli American Music Club e l’incompiuto potenziale dei The Sleepers. Ci saranno anche molti album di rilievo usciti nell’anno che sta per finire: il rock psichedelico mediorientale tra Grecia e Turchia dei trascinanti Buzz’ Ayaz, il folk contaminato da jazz e post-rock degli Ugly (subito dopo aver riascoltato i caleidoscopici amici Black Country, New Road), le suggestioni cinematiche dei Dead Bandit (dopo le antiche meraviglie dei Disco Inferno), il grande ritorno della coppia Gillian Welch & David Rawlings, una Ani DiFranco in gran spolvero dopo la cura BJ Burton e la sinergia di pop alternativo tra Caroline Shaw e il collettivo Sō Percussion. Ci sarà anche l’album della svolta dei Wilco ed il gran finale sarà appannaggio delle meraviglie ritmiche di John Colpitts aka Kid Millions (negli Oneida) dietro al nome di Man Forever.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. BUILT TO SPILL: I Would Hurt A Fly da ‘Live’ (2000 – City Slang)
02. ARBOURETUM: Renouncer da ‘Coming Out Of The Fog’ (2013 – Thrill Jockey)
03. THE CURE: A Forest da ‘Concert – The Cure Live’ (1984 – Fiction Records)
04. THE GOD IN HACKNEY: Interstate 5 da ‘The World In Air Quotes’ (2023 – Junior Aspirin Records)
05. THE DELINES: Little Earl da ‘The Sea Drift’ (1980 – Decor Records, El Cortez Records)
06. BOL & SNAH: Briefing da ‘So? Now?’ (2015 – Gigafon)
07. MOUNT KIMBIE: Dumb Guitar da ‘The Sunset Violent’ (2024 – Warp Records)
08. BUKE AND GASE: Houdini Crush da ‘General Dome’ (2013 – Brassland)
09. THE BOOKS: The Lemon Of Pink I da ‘The Lemon Of Pink’ (2003 – Tomlab)
10. DIRTY PROJECTORS: That’s A Lifestyle da ‘Lamp Lit Prose’ (2018 – Domino)
11. TERRY CALLIER: Timepeace / No One Has To Tell You / Build A World Of Love da ‘TimePeace’ (1998 – Verve Forecast)
12. THE ZOMBIES: Care Of Cell 44 da ‘Odessey And Oracle’ (1968 – CBS)
13. DEADBURGER FACTORY: Blu Quasi Trasparente da ‘La Chiamata’ (2020 – Snowdonia)
14. VITTORIO NISTRI – FILIPPO PANICHI: La Risacca Dell’Alba da ‘Vittorio Nistri – Filippo Panichi’ (2024 – Snowdonia)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) December 6, 2024