Ecco il sedicesimo podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa avventura in musica troverete una prima parte dedicata alle varie declinazioni del post punk nel 1979 e una seconda ad esplorare sentieri più intimisti.
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
In questo sedicesimo episodio stagionale troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire. Nella prima parte, introdotto dall’adrenalinico punk rimodellato dei Refused, troverete una sorta di viaggio nel tempo tra alcune delle voci più creative che animavano il mondo musicale dopo il punk e agli albori degli anni ’80 come The Clash, Mark Stewart, Gang Of Four, The Slits, XTC e Stiff Little Fingers. Nella seconda parte, introdotta dall’eccellente sinergia tra il compianto Vic Chesnutt, Elf Power e The Amorphous Strums, troverete il folk distopico di Me Lost Me, quello sognante di Weyes Blood e le suggestioni retropop dei Vanishing Twin prima di un finale che vede il ritorno delle amate sonorità Sarah Records dei Trembling Blue Stars e le melodie minimali e sognanti dei Galaxie 500 e Blonde Redhead. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Nel corso dei miei podcast ho parlato di una serie chiamata The Bear, che oltre ad essere una delle più riuscite degli ultimi anni, ha anche a suo favore una colonna sonora di tutto rispetto. Alcuni dei momenti più ansiogeni (o adrenalinici) sono sottolineati da questo brano che ho messo in maniera programmatica ad inizio podcast. Nel 1998 una punk band svedese chiamata Refused pubblicò il terzo album in studio intitolato The Shape Of Punk To Come, rifacendosi già dal titolo ad un disco fondamentale della storia del jazz uscito nel 1959: The Shape Of Jazz To Come di Ornette Coleman. Come aveva fatto il sassofonista statunitense 40 anni prima, l’intento di Dennis Lyxzén (voce), Kristofer Steen (chitarra, basso, batteria), Jon Brännström (chitarra, campionatore) e David Sandström (batteria, chitarra) era quello di ridefinire l’hardcore punk conosciuto fino a quel momento.
I quattro ragazzi svedesi misero di tutto nel calderone: gli insegnamenti anarchici di Karl Marx e Errico Malatesta, elettronica quasi club techno, ritmiche jazz (c’era perfino John Coltrane che li osservava in quarta di copertina), field recordings e samples. Il disco, come spessissimo accade nella storia del rock, ebbe uno scarso successo commerciale, venendo poco pubblicizzato dall’etichetta Burning Heart Records e vendendo in un anno poco più di sole 1400 copie negli Stati Uniti. Tutto questo provocò sconforto e dissidi all’interno della formazione, tra cui (pare) un litigio tra Lyxzén e Brännström nel backstage di un concerto in Svezia e portando il quartetto allo scioglimento l’anno successivo. “New Noise” è solo un esempio di quello che potete ascoltare nelle 12 tracce di questo album esplosivo che ha avuto il giusto riconoscimento solo recentemente. Il gruppo si è riunito nel 2015 dopo 17 anni di silenzio.

Iniziamo adesso un piccolo viaggio in quel periodo magico che è stata la fine degli anni ’70, soffermandoci soprattutto su un anno speciale come il 1979. La rivoluzione punk partita dagli USA aveva trovato un potente propellente per la definitiva esplosione proprio in Inghilterra, arrivando in un angolo martoriato da divisioni, tensioni e guerra civile chiamato Irlanda Del Nord. A Belfast, nel 1977, l’ondata del punk proveniente da Londra ha colpito talmente forte il cantante-chitarrista Jake Burns da abbandonare il suo progetto di cover hard rock chiamato Highway Star e a trascinare gli altri due membri del gruppo Henry Cluney (chitarra) e Brian Faloon (batteria) in una nuova formazione comprendente il nuovo bassista Ali McMordie e chiamata Stiff Little Fingers. Burns ha dichiarato di “amare la forza viscerale del [punk]” e l’aspetto “delle dita [medie] alzate verso l’establishment del rock”. Era particolarmente ispirato dai Clash che “scrivevano delle loro vite in un modo che colpiva davvero a fondo”.
Un altro evento che causò il riorientamento degli SLF verso il punk rock fu la “Battaglia di Bedford Street”, una rivolta fuori dall’Ulster Hall nell’ottobre del 1977, scoppiata a causa della cancellazione di un’esibizione dei Clash. A quel punto il gruppo si rese davvero conto di non essere “sola” nella scena punk dell’Ulster. Il 2 febbraio 1979 il gruppo pubblica Inflammable Material, il loro album di debutto del gruppo punk prodotto da Mayo Thompson. La maggior parte dei brani dell’album descrive la triste realtà della vita in Irlanda del Nord in tempi di contrapposizione e conflitto, con canzoni che contengono temi come la noia adolescenziale, la privazione, la violenza settaria e la brutalità della polizia. Già dal nome la “Alternative Ustler” inserita in scaletta mostra la rabbia e l’energia vitale di questo enorme gruppo.

Da poco ci ha lasciato Dave Allen, bassista influente e fondatore, insieme ad Andy Gill, della band più politicizzata e tra le più importanti della scena post-punk britannica. Nato a Kendal nel 1955, aveva fondato i Gang Of Four a Leeds, dove si era trasferito con la famiglia, insieme ad altri tre studenti universitari: Jon King (voce), Andy Gill (chitarra) e Hugo Burnham (batteria). I quattro seppero dare subito una precisa identità e direzione al loro lavoro, scegliendo un nome abbastanza provocatorio per l’epoca. Gang Of Four infatti era il soprannome dispregiativo affibbiato ai leader del gruppo rivoluzionario culturale cinese che rimase alla guida del paese fino a poco dopo la morte di Mao, avvenuta nel settembre 1976, quando il nuovo premier cinese decise di arrestarli.
I componenti del gruppo sono stati un vero prodotto della cultura universitaria di sinistra diventando presto il cardine della scena di Leeds, affiancata da compagni di strada come Au Pairs e Mekons, tutti dotati di una forte coscienza politica. La band aveva deciso, pur essendo teoricamente rivoluzionaria, di avere la maggior visibilità possibile all’esordio, e tra le tante etichette interessate, decise di accasarsi presso la EMI, major che aveva grande distribuzione e identità politica neutra. Neutra sicuramente non era la copertina del loro memorabile album di esordio, pubblicato nel 1979. L’artwork di Entertainment!, ideato e disegnato dal cantante Jon King e da Andy Gill, mostra in tre sequenze la stretta di mano tra un cowboy e un nativo americano. E mentre il primo pensa con il sorriso sulle labbra quanto con quel gesto abbia costretto il pellerossa ad un becero sfruttamento, il secondo non immagina nemmeno quello che succederà successivamente. L’aperta accusa verso ogni tipo di colonialismo e sfruttamento trova il suo contraltare musicale tra i solchi dell’album. Basti ascoltare un brano come “Not Great Men”: con il suono potente del basso, e quello volutamente scarno e abrasivo della chitarra. Una produzione in studio, che voleva evitare il riverbero e la potenza del loro live-act per privilegiare una sensazione di abrasività secca. Uno dei dischi essenziali del 1979 e dell’intera storia del post-punk.

Abbandoniamo per un attimo punk e post punk rimanendo in un solco britannico nel corso dell’anno di grazia 1979. Una delle band pop rock (anche se è sicuramente riduttivo etichettarli così) più scintillanti del Regno Unito sono senza dubbio gli XTC da Swindon, nella contea del Wiltshire. L’incontro fatale tra Andy Partridge e Colin Moulding avviene alla metà degli anni ’70. I due insieme al batterista Terry Chambers formano gli Helium Kidz, che, dopo l’ingresso del tastierista Barry Andrews si trasformano negli XTC. Uno stile che prende solo in parte dalla new-wave che in quegli anni dettava legge in Gran Bretagna, riuscendo a nascondere le loro complessità armoniche in una straordinaria orecchiabilità. Andy Partridge (voce, chitarra e synth), Colin Moulding (voce e basso) e Terry Chambers (batteria), dopo la pubblicazione di Go 2 salutano il tastierista Barry Andrews e accolgono in formazione il chitarrista Dave Gregory, che sarà pilastro importante del gruppo fino al 1998.
Per il nuovo album, nel 1979, il gruppo si chiude nel nuovo studio Town House di Londra insieme al produttore Steve Lillywhite e l’ingegnere del suono Hugh Padgham, che stavano iniziando a sviluppare la loro tipica tecnica di produzione audio che prevedeva un forte riverbero ed enfasi soprattutto sulla parte percussiva, suono che possiamo trovare poi in molti dischi degli anni ’80. Ad Agosto esce Drums And Wires, loro terzo disco in studio e uno dei loro capolavori. Dal punto di vista dei testi, l’album si concentra sugli orpelli o i brividi del mondo moderno, con diverse canzoni che parlano di sottomissione alle forze esterne. Le canzoni di Partridge si concentrano anche sull’impatto della tecnologia sulle emozioni umane. “Ten Feet Tall” è stata la prima canzone acustica degli XTC, una splendida ballata agrodolce che trova perfettamente il suo spazio nel podcast.

Dopo i primi quattro brani non potevo esimermi dall’inserire in scaletta un brano del gruppo che aveva ispirato gli Stiff Little Fingers e una della band principali del punk in Gran Bretagna, che proprio nel 1979 ha pubblicato uno dei dischi in assoluto più conosciuti della storia del rock. Mick Jones (vero nome Michael Geoffrey Jones) già nei primi anni ’70 aveva iniziato a suonare in una bande nel 1975 si unì alla band proto-punk, London SS, che erano gestiti dal manager Bernard Rhodes, socio di Malcolm McLaren e amico dei membri dei Sex Pistols. Dopo lo scioglimento dei London SS, spinto da Rhodes, Jones contattò Paul Simonon e gli suggerì di imparare a suonare uno strumento in modo da poter entrare nella nuova band che Jones stava organizzando, assieme al chitarrista Keith Levene. Simonon fu scelto per la sua immagine: biondo, alto e molto sicuro di sé.
Nel 1976 Jones e Simonon, reclutarono Joe Strummer dai 101’ers come cantante e chitarrista ritmico e formarono i The Clash. Dopo numerosi cambi di batteristi, si unì a loro Terry Chimes, e grazie a varie esibizioni dal vivo, ebbero subito un notevole seguito nella nascente scena punk inglese. Chimes fu successivamente rimpiazzato con Topper Headon. London Calling esce a Dicembre 1979, con l’iconica copertina che ritrae lo stesso Simonon mentre distrugge il suo basso durante la seconda data di un’esibizione dal vivo al Palladium di New York. Il disco presenta una notevole complessità compositiva e mescolanza dei generi, nei 19 brani troviamo riferimenti ska, pop, reggae, rockabilly, rhythm and blues. “Spanish Bombs” è un trascinante brano punk.pop scritto da Strummer ed ispirato dalla guerra civile spagnola e dagli attacchi dell’ETA.

Loro sono stati uno dei gruppi più originali, innovativi ed influenti della storia del rock. I The Pop Group nascono in piena era punk, e ne assorbono lo spirito di assalto, rivestendolo a nuovo con tessiture dub, funk, jazz. Il nome già tradiva il loro sarcasmo innato, la musica e le liriche erano intrise di protesta contro la società. Y è stato il loro capolavoro. esce nel 1979 ed è una successione di ritmi tribali, singulti, variazioni di ritmo, una tensione che non viene mai meno. Questa visione è stata approfondita dai vari componenti del gruppo dopo lo scioglimento con il batterista Bruce Smith e il sassofonista Gareth Sager a spingere sul versante più jazz con i caleidoscopici Rip Rig & Pani.
Mark Stewart unì la sua passione per il funk, per la musica afroamericana, per il dub e per le nuove tecniche in studio per creare un nuovo mondo ballabile con il trio dei Maffia. Nel corso di un’illustre carriera di musica innovativa con The Pop Group, Mark Stewart & Maffia e come artista solista, Stewart ha prodotto un insieme di opere fondamentali, alimentate dagli ideali DIY del punk, dalla politica radicale, dai movimenti di protesta, dalla teoria, dalla filosofia, dalla tecnologia, dall’arte e dalla poesia. Tante sono state le scosse date da Stewart alla musica, molti i momenti memorabili e travolgenti, tante le geniali anticipazioni. Edit uscì nel 2008, ed è l’ennesimo splendido manifesto delle visioni sonore di Stewart, tra funk bianco, dub, grooves incandescenti e trascinanti come quello di “Strange Cargo”.

Terminiamo questa piccola parentesi dedicata al 1979. Ariane Daniele Forster, nata in Germania e trasferita da piccola in Inghilterra, ha il DNA musicale nel sangue. Il padre era stato un cantante popolare di discreto successo a Monaco mentre la madre Nora era stata amica di Jimi Hendrix e, dopo la separazione con il marito, la compagna di Chris Spedding dei Nucleus. E se proprio Nora sposerà John Lydon nel 1979, Ariane prenderà lezioni di chitarra da Joe Strummer. Nel 1976, a 14 anni, incontra la batterista nata in Spagna Paloma McLardy. Dopo aver cambiato i loro nomi in Ari Up e Palmolive, le due ragazze incontrano la bassista Tessa Pollitt e la chitarrista Kate Korus ed insieme formano il primo nucleo delle The Slits. Dopo aver condiviso il palco del Harlesden Coliseum londinese nel marzo 1977 con Buzzcocks e The Clash, le due (consigliate proprio dai Clash) sostituiscono la Korus con Viv Albertine, allora compagna di Mick Jones.
E se Palmolive aveva abbandonato la band prima delle registrazioni dell’album di esordio per andare con le Raincoats, le tre superstiti non si sono certo perse d’animo ed insieme al batterista Budgie (all’anagrafe Peter Clarke) sono state prese per mano dal produttore Dennis Bovell, responsabile anche di Y del The Pop Group, e portate in studio per incidere Cut. Molti i punti di contatto proprio con quel capolavoro chiamato Y: dalla copertina (anche se gli aborigeni pieni di fango sono stati sostituiti dalle tre infangate in topless in uno scatto che farà scalpore), all’aggressivo miscuglio di punk-funk-dub che le rende uniche, unito alla passione per il reggae di Ari Up ben presente nel groove di “Newtown” che ho deciso di inserire in questo podcast. Insomma, le Slits non sono durate molto, ma sono istantanee fantastiche di un (som)movimento musicale forse irripetibile.

A cavallo tra i ’90 e gli anni 2000 ci sono stati diversi songwriters che hanno saputo tracciare una linea importante e toccare le corde giuste dell’emozione. In particolare tre ragazzi tanto talentuosi quanto fragili psicologicamente sono riusciti ad emozionarmi in maniera importante, tre ragazzi che sono stati vittime della loro stessa fragilità interiore scegliendo la medesima strada per allontanarsi da questo mondo. Vic Chesnutt, Mark Linkous aka Sparklehorse e Jason Molina. Anche se quest’ultimo non ha proprio volontariamente lasciato questo piano dell’esistenza ma in qualche modo è come se lo avesse fatto lentamente ma inesorabilmente, aveva grandi problemi con l’alcool e purtroppo non aveva l’assicurazione sanitaria: questo negli Stati Uniti difficilmente perdonava…figuriamoci adesso con l’amministrazione Trump!
Tornando a Chesnutt, nel 1983 fu vittima di un tremendo incidente stradale mentre guidava sotto effetto di alcool. Perse il controllo della vettura finendo in un canale, uscendone con gli arti inferiori paralizzati e rimanendo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Questo non gli impedì di iniziare una carriera musicale che trovò una svolta con il trasferimento a Athens, Georgia, e l’interesse di Michael Stipe che produsse i suoi primi due lavori. Un anno prima della sua scomparsa Chesnutt registrò un album insieme agli amici Elf Power e ai sodali Curtiss Pernice e Sam Mixon, nascosti dietro il moniker di The Amorphous Strums. Il disco, intitolato Dark Developments e registrato nello studio casalingo di Chesnutt, mostra il clima rilassato e divertito delle session. La parte scura di Chesnutt sembra aggirarsi più nei versi, con una forte critica verso la politica americana (pensiamo a cosa potrebbe dire oggi…) che nella musica che si rivela più libera e leggera del solito. L’incontro tra l’introverso cantautore e i più solari Elf Power si risolve in una mediazione estremamente gradevole, dove le varie anime dei musicisti riescono a fondersi naturalmente senza snaturarsi. La “We Are Mean” inserita nel podcast è uno dei vertici di un disco estremamente gradevole.

C’è un sottile filo che unisce la musica di Jayne Dent aka Me Lost Me a quella di Richard Dawson. Non è solo l’aria condivisa di Newcastle Upon Tyne, ma un modo curioso, giocoso ed in qualche modo distopico di declinare la musica folk, substrato comune ai due. Nato come progetto solista, Me Lost Me è diventato una sorta di collettivo che prevede la collaborazione regolare dei musicisti jazz Faye MacCalman al clarinetto e John Pope al contrabbasso. Dai club folk di Sheffield all’università di belle arti a Newcastle, Jayne Dent ha costruito, grazie alla sua curiosità e al suo talento, una modalità compositiva capace di unire la tecnologia di studio e l’elettronica al songwriting tradizionale. Una combinazione di folk tradizionale, field recordings, effetti elettronici, art pop, improvvisazione, che colpisce nel segno.
Questa sorta di magia appare soprattutto nel suo terzo album intitolato RPG, capace di portare la musica tradizionale a cavallo del tempo dalle tradizioni arcaiche dei racconti popolari fino al futuro, senza paura ma con una giocosa curiosità. Il disco è stata una delle più piacevoli scoperte dell’anno, capace di far innamorare sia chi ama la tradizione sia chi preferisce la sperimentazione: una serie di paesaggi sonori metà strada tra antico e moderno, con la una magistrale miscela di radici folk, elettronica e arrangiamenti intriganti, resa ancora più solida e convincente da una voce ricca e piena di sfumature che, anche a livello lirico, riesce a bilanciare elementi ambientali surreali e fantastici con ambienti ordinari e quotidiani. Ascoltate lo splendido loop di synth arricchito da clarinetto e percussioni rotolanti della “Festive Day” inserita in scaletta. Una splendida sorpresa e un disco di tale profondità sonora da renderlo di difficile collocazione all’interno di un genere definito.

Nel corso del 2022 avevo gradito molto poco certi perversi meccanismi social nel parlare dei Fontaines D.C. e avevo espresso il mio disappunto per le critiche fatte per partito preso o per antipatia. Devo dire che certe considerazioni le avevo dovute sottolineare nel 2022 dopo aver letto alcuni commenti dopo l’uscita di And In The Darkness, Hearts Aglow il nuovo album di Natalie Mering, in arte Weyes Blood. Eccone alcuni: “soporifero”, “canzoni non memorabili”, “troppo sofisticata”, “mancano le canzoni”, addirittura “troppo perfetto” come se la perfezione fosse un difetto, oppure (il più bello in assoluto) “invecchiato male” come se fosse un disco uscito nel 1972. Giudizi tranchant probabilmente senza un ascolto adeguato alle spalle, dati solo perché la quasi totalità delle riviste cartacee e delle webzine musicali lo ha giudicato positivamente.
Insomma, il dover per forza parlare male di qualcosa che piace, come chi urla sempre il proprio dissenso al famoso mainstream, qualunque esso sia. Ma il talento della Mering è notevole, dopo le esperienze con Jackie O-Motherfucker e Satanized, il percorso della songwriter californiana ha battuto i sentieri di un folk contaminato da elettronica e da aperture oniriche e psichedeliche. Nell’intenzione dell’autrice, l’album è il secondo di una speciale trilogia inaugurata dall’emozionante Titanic Rising del 2020, una trilogia che vuole cercare un significato in un’epoca di instabilità e di cambiamenti irrevocabili. Una vocalità calda che rimanda ad alcune splendide interpreti degli anni ’70 (Joni Mitchell o Judee Sill), arrangiamenti estremamente eleganti con innesti elettronici (grazie anche a Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never), un tocco di spiritualità e canzoni che funzionano perfettamente come la splendida “Twin Flame” inserita nel podcast.

Andiamo avanti con il podcast parlando di un gruppo che probabilmente ha preso alcune soluzioni sonore da quel meraviglioso mondo sonoro di grande creatività che è stato il post rock britannico anni ’90. Inizialmente formati dalla cantante e polistrumentista Cathy Lucas nel 2015, dopo una serie di cambi di line-up, i Vanishing Twin sono oggi il collettivo londinese, ben affiatato, formato dalla stessa Lucas, dalla batterista Valentina Magaletti (Holy Tongue, Tomaga, Moin) e dal bassista Susumu Mukai (Zongamin). Sfruttando i diversi background e i punti di riferimento dei suoi membri, l’arte canora di Lucas, l’approccio singolare della Magaletti alle percussioni sperimentali e la lunga storia di Mukai nella produzione di musica elettronica, la band ha affinato un suono ipnotico alla confluenza di minimalismo, kosmische, post-punk e pop psichedelico carico di sogni.
Aiutati dal produttore Malcolm Catto (Heliocentrics, DJ Shadow, The Gaslamp Killer), la strana band aveva esordito nel 2016 portando a compimento con Choose Your Own Adventure un curioso esperimento esoterico tra atmosfere retro e pop, con strumenti vintage ad evocare le strane storie del gemello assorbito nell’utero della mamma della Lucas. Si respira un’atmosfera cosmica in questo strampalato viaggio nel tempo, un fascino retro che sfiora i primi Stereolab, come dimostra la splendida “The Conservation Of Energy”. Il collettivo, arrivato due anni fa con Afternoon X al quarto lavoro in studio, è ormai un gruppo di grande personalità, con un suono riconoscibile e perfettamente messo a fuoco, uno dei collettivi più interessanti degli ultimi anni.

C’era una volta un’etichetta britannica che si chiamava Sarah Records. Creata a Bristol nel 1987, le sue pubblicazioni hanno accompagnato i nostri sogni più romantici, popolato la parte più pop e malinconica del nostro cuore, abbracciato le nostre lacrime e le nostre gioie. Un mondo sognante ed incantevole popolato da band di culto tra cui The Orchids, Blueboy, Brighter, The Field Mice e molte altre. Poco importa che il sogno creato dai visionari Clare Wadd e Matt Haynes sia in qualche modo finito nel 1995, il mondo della Sarah Records sarà sempre presente nel nostro immaginario. Bob Wratten era il leader proprio dei The Field Mice, esperienza chiusa insieme alla Sarah Records ed in contemporanea alla fine della sua storia d’amore con Anne Mari Davies, sua partner nella vita e sul palco.
Così Wratten nel 1996 con il cuore spezzato forma una nuova entità, i Trembling Blue Stars, e la affida all’etichetta che prende il testimone e l’eredità della Sarah, quella Shinkansen Recordings voluta da Matt Haynes. Her Handwriting non è solo il primo album della nuova band ma il primo sulla lunga distanza ad uscire per la neonata label inglese. In questo disco troviamo tutte le coordinate che hanno reso celebre la Sarah Records, un indie-pop malinconico e romantico così lontano dalle logiche di mercato, dai ritornelli appiccicosi al punto giusto. Quello spleen e quello stato d’animo che tanto riescono sempre ad affascinare, come nella deliziosa ballata di allegra malinconia british chiamata “For This One”.

Sicuramente influenti per un certo modo intimista e malinconico di interpretare la musica, sono stati il chitarrista Dean Wareham, il batterista Damon Krukowski e la bassista Naomi Yang, che dai banchi dell’università di Harvard si trasferirono sul palco sotto il nome di Galaxie 500. Nei loro quattro anni di attività, dal 1987 al 1991 hanno pubblicato tre album e soprattutto hanno comunicato in modo semplice e dimesso la malinconia ed il disagio di una generazione. Band di culto, diretti in studio da un produttore come Mark Kramer (ex Butthole Surfers e collaboratore di John Zorn) che creerà in parte il loro suono pieno di riverberi, i tre avevano ripreso le atmosfere dei Velvet Underground dissanguandole e anestetizzandole.
Difficile definire il migliore in una trilogia quasi perfetta, stavolta la mia scelta è caduta sull’ultimo lavoro in studio, quel This Is Our Music uscito nel 1990 e su un brano splendido come “Fourth Of July”. Dal vivo, il trio suonava spesso cover della Plastic Ono Band, The Modern Lovers e dei Velvet Underground, a voler mostrare le proprie, splendide, radici. Dal loro suono nasceranno molte band definite slowcore come Mazzy Star, Low o Red House Painters, pervase dalla stessa lenta malinconia. Naomi Yang e Damon Krukowski continueranno la loro carriera più tardi in studio come Damon & Naomi, ma quella è un’altra storia.

Chiudiamo il podcast con un gruppo che non passo nei miei podcast da moltissimo tempo. I Blonde Redhead sono stati formati nel 1993 a New York dall’incontro dei gemelli italiani Amedeo (voce e chitarra) e Simone Pace (batteria) con la cantante giapponese Kazu Makino. All’inizio della storia faceva parte della band anche la bassista Maki Takahashi che però lascerà la band subito dopo l’album di esordio. Dopo i primi album devoti al noise-rock dei Sonic Youth e cesellati proprio dalla produzione di Steve Shelley, il trio decide di virare leggermente atmosfera approdando ad un suono più levigato, una loro particolare declinazione della melodia.
Sono tornato indietro fino al 2004, quando è uscito il loro sesto album in studio Misery Is a Butterfly, primo album pubblicato dalla storica etichetta 4AD e prodotto da Guy Picciotto, chitarrista dei Fugazi. Gran parte del contenuto emotivo e lirico dell’album riflette l’incidente a cavallo occorso a Kazu Makino del 2003, che ha richiesto un intervento di ricostruzione facciale e mesi di riabilitazione. Proseguendo l’evoluzione sonora iniziata con il disco precedente, il trio inserisce ricchi arrangiamenti di archi (viola, violino, violoncello), conferendogli un’atmosfera cinematica e pop da camera. Il risultato è uno dei migliori album della loro carriera, dove convivono le diverse anime del gruppo e che risulta convincente anche nella migliori tracce del nuovo corso come la splendida ballata “Melody” scritta e cantata proprio dalla Makino.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio troverete la consueta alternanza tra novità, capolavori della storia del rock e dischi/artisti da riscoprire. Tra le novità troverete il ritorno della splendida Edith Frost e dei sempreverdi Nightingales oltre ad un trio intrigante chiamato Bambara, mentre dall’altra parte ripercorreremo in lungo ed in largo la storia del rock con i barbuti ZZ Top, i maestri dello stoner Kyuss, alternativi del punk come gli Stranglers e altre meraviglie, concludendo con una delle tante magie di Nick Drake.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
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Buon Ascolto
TRACKLIST
1. REFUSED: New Noise da ‘The Shape Of Punk To Come (A Chimerical Bombination In 12 Bursts)’ (1998 – Epitaph)
2. STIFF LITTLE FINGERS: Alternative Ulster da ‘Inflammable Material’ (1979 – Rough Trade)
3. GANG OF FOUR: Not Great Men da ‘Entertainment!’ (1979 – EMI)
4. XTC: Ten Feet Tall da ‘Drums And Wires’ (1979 – Virgin)
5. THE CLASH: Spanish Bombs da ‘London Calling’ (1979 – CBS)
6. MARK STEWART: Strange Cargo da ‘Edit’ (2008 – Crippled Dick Hot Wax!)
7. THE SLITS: Newtown da ‘Cut’ (1979 – Island Records)
8. VIC CHESNUTT, ELF POWER and THE AMORPHOUS STRUMS: We Are Mean da ‘Dark Developments’ (2008 – Orange Twin Records)
9. ME LOST ME: Festive Day da ‘RPG’ (2023 – Upset! The Rhythm)
10. WEYES BLOOD: Twin Flame da ‘And In The Darkness, Hearts Aglow’ (2022 – Sub Pop)
11. VANISHING TWIN: The Conservation Of Energy da ‘Choose Your Own Adventure’ (2016 – Soundway)
12. TREMBLING BLUE STARS: For This One da ‘Her Handwriting’ (1996 – Shinkansen Recordings)
13. GALAXIE 500: Fourth Of July da ‘This Is Our Music’ (1990 – Rough Trade)
14. BLONDE REDHEAD: Melody da ‘Misery Is A Butterfly’ (2004 – 4AD)
