Ecco il quinto podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica torneremo indietro nel tempo per riascoltare artisti che non hanno avuto il successo che avrebbero meritato
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Nel quinto episodio stagionale parte parleremo del talento incompiuto di David Berman, rivivremo la scena clou di Alta Fedeltà grazie ai The Beta Band, ascolteremo i The Smile e l’esordio meravigliosamente inquieto di Anna B Savage. Ci sarà spazio per un Bill Callahan di annata, per il ripescaggio del folk spoglio e affascinante di Wildbirds & Peacedrums, per la forza dirompente dei Birthday Party, per il noise dei Party Dozen e per i sottovalutatissimi The Sound. Dopo l’americana ispirata dei Grant Lee Buffalo e il power pop scintillante dei Teenage Fanclub chiuderemo ritrovando uno dei migliori e misconosciuti gruppi italici come i The Carnival Of Fools di Mauro Ermanno Giovanardi e l’indie rock perfetto dei The Van Pelt. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un gruppo formato a metà anni ’90 in Scozia che ha raggiunto in breve tempo lo status di cult band. Sto parlando dei The Beta Band, formati nel 1996 da Steve Mason (voce, chitarra) e Gordon Anderson. Quando iniziarono a scrivere le canzoni per il loro EP di debutto Champion Versions, si aggiunsero Robin Jones (batteria), John Maclean (DJ, campionatore, tastiere) e Steve Duffield (basso) che lasciò la band subito dopo aver registrato Champion Versions, seguito a breve tempo da Anderson per motivi di salute. Inseriti spesso (a torto) nel filone brit pop, il gruppo suonava una miscela di folk, elettronica, rock, con un’attitudine alla sperimentazione divertita.
L’ingresso del bassista Richard Greentree consolidò la loro formazione. I primi 3 Ep del gruppo vennero nel 1998 raccolti in un album intitolato The Three EPs e il primo brano del gruppo, la “Dry The Rain” che apre il podcast, venne inserita in una scena iconica del film Alta Fedeltà (basato sull’omonimo romanzo di Nick Hornby), uscito nel 2000. Ricorderete sicuramente il proprietario di un negozio di dischi interpretato da John Cusack citare la band (“Ora venderò cinque copie di The Three E.P.’s dei The Beta Band”) mettendo proprio “Dry the Rain”.
In attesa del suo terzo lavoro, in uscita ad inizio 2025, sono andato a riprendere l’esordio di cantautrice che ha saputo sempre colpirmi emotivamente. Non c’era alcun dubbio che la musica avrebbe avuto una parte fondamentale nella vita della londinese Anna B Savage. Figlia di due cantanti lirici, Anna ha trascorso i suoi primi compleanni nella stanza verde della Royal Albert Hall per una curiosa coincidenza: essere nata lo stesso giorno in cui morì Johann Sebastian Bach. Infatti ogni anno i suoi genitori venivano scritturati per esibirsi nell’annuale BBC Prom dedicato al compositore tedesco nella storica location di South Kensington. Dopo una silenziosa gavetta, nel 2015 la Savage ha pubblicato il suo primo EP, un’uscita prodotta da DM Stith accompagnata da poche e scarne note, ma capace di colpire nel segno per la timbrica profonda e per i testi personali che esprimevano insicurezze, domande e dubbi spesso irrisolti.
Il passo successivo lo ha compiuto grazie al contatto e alla conseguente sinergia con William Doyle (FKA East India Youth) che, con la sua produzione ambiziosa ma elegante, è riuscito a dare una forma compiuta alle canzoni. I due sono stati in grado di creare A Common Turn, un disco composto da dieci tracce non certo convenzionali, piene di improvvise quanto felici intuizioni, dove l’estensione ed il timbro vocale della Savage riescono a creare intrecci con le armonie estremamente originali. Sono le vulnerabilità di ognuno di noi, più o meno nascoste, quelle che ritroviamo espresse con sussurri e potenza in questo disco di disarmante sincerità fatto di tensioni e rilasci, ansie e catarsi, come dimostra la splendida “BedStuy” inserita nel podcast.
Chi mi segue da tempo lo sa. Ho un rapporto abbastanza conflittuale con i Radiohead e con la voce di Thom Yorke. Pur riconoscendogli il merito di aver voluto cambiare coraggiosamente le regole del gioco con Kid A, ho sempre fatto fatica ad entrare in sintonia con la loro musica. Dopo la lunga (ormai) pausa del suo progetto principale, Yorke si è dedicato al suo progetto solista che prevede la creazione di colonne sonore, trovando poi il tempo di creare una nuova entità durante il lockdown forzato chiamata The Smile insieme al chitarrista Jonny Greenwood, suo sodale nei Radiohead, e ad una sorta di variabile impazzita come il batterista Tom Skinner (Melt Yourself Down, Sons Of Kemet, London Brew). Il tutto sotto la supervisione di Nigel Godrich.
Dopo un primo lavoro intitolato A Light for Attracting Attention uscito due anni fa, nel 2024 il trio ha pubblicato ben due nuovi album. La scelta per questo podcast è andata sul primo dei due, un disco intitolato Wall Of Eyes, forse il migliore dei tre. Il disco è più introspettivo e carico di magnetismo, prodotto stavolta da Sam-Petts-Devies, capace di caricare il suono più orchestrale del trio. Forse il brano in cui i tre riescono a coniugare meglio le ritmiche straordinarie di Skinner, gli arpeggi e le dissonanze di Greenwood e le litanie di Yorke è la lunga “Bending Hectic” proposta nel podcast.
La coppia nella vita e sul palcoscenico Andreas Werliin e Mariam Wallentin con il nome di Wildbirds & Peacedrums, ha saputo conquistarmi da subito: l’approccio tanto scarno quanto nuovo dei due studenti di teatro e musica di Goteborg, con la voce di lei abile a cambiare tonalità espressiva, riuscendo ad essere tanto seducente quanto sanguigna, e le percussioni di lui a riempire ogni spazio in un caleidoscopio voce-ritmo da togliere il fiato. Un primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello, proiettato al confine con il pop senza però mai attraversarlo del tutto, solo per voce e percussioni con il solo ausilio di xilofoni ed organetti e con quegli svolazzi orientaleggianti a fare capolino (retaggio dell’origine siriana di Mariam) che hanno sempre reso il piatto speziato ed unico.
Proprio dall’esordio del duo ho scelto la splendida “The Battle In Water” per rappresentare la loro incredibile strada sonora. Quando pensavo che i due fossero troppo presi dai loro progetti alternativi, dal maelstrom avant-jazz del collettivo Fire! Orchestra, all’inserimento della Wallentin nei potenti The Skull Defekts passando per le velleità pop di Mariam The Believer, ecco che nel 2014 la coppia era tornata spiazzando e colpendo al cuore con lo splendido (ancora una volta) Rhythm. Sono passati ormai 10 anni da questo ennesimo splendido lavoro e la speranza è quella che il duo possa tornare in sala di registrazione.
Ho sempre amato le canzoni in bassa fedeltà, pervase da un ambientazione decadente, da una malinconia che non raramente viene attraversata da un pungente sarcasmo. Lui si nascondeva sotto il moniker di Smog, ma dal 2007, dopo aver rilasciato diversi album notevoli tra cui il capolavoro Julius Caesar, ha deciso di firmarsi semplicemente con il suo vero nome, Bill Callahan. Esponente di punta di un certo tipo di cantautorato lo-fi insieme a Will Oldham o al compianto Jason Molina, Callahan ha sempre continuato a sfornare album mai meno che eccellenti.
“Per me questa è una capsula del tempo più di qualsiasi altra mia registrazione. Tutta la musica è un momento intrappolato nel tempo che predica l’ assenza di tempo – che sia convincente o meno. Ma in una sessione radiofonica come questa c’è un aspetto diverso. È tutto dal vivo, tutto in prima battuta, senza sovraincisioni.” Così lo stesso Callahan parla di quello che viene definito una sorta di Santo Graal, una Peel Session registrata nel Dicembre 2001 negli studi della BBC quando ancora si esibiva sotto il nome di Smog. Quattro canzoni che sono state appena pubblicate sotto il nome di The Holy Grail – Bill Callahan’s Smog Dec 10, 2001 Peel Session comprendenti una cover a testa di Stevie Nicks e Lou Reed e due a nome Smog tra cui la “Cold Discovery” inserita nel podcast.
A proposito di cantautorato in bassa fedeltà. L’ho fatto molto poco in passato, ma è cosa buona e giusta ricordare un talento cristallino come David Berman. Nel 1985 Berman frequentava l’Università della Virginia facendo comunella soprattutto con altri due ragazzi chiamati Stephen Malkmus e Bob Nastanovich. Trasferiti a Hoboken, New Jersey i tre iniziarono a lavorare in alcune gallerie d’arte e da un pezzo d’arte concettuale chiamato Silver Jewelry uscì fuori il nome della band, Silver Jews. In realtà Berman è rimasto l’unico punto fermo del gruppo visto che gli altri due andarono quasi parallelamente a creare i Pavement. In realtà Malkmus e Nastanovich fanno parte della formazione che registra l’esordio Starlite Walker, uscito nel 1994 insieme al secondo abum dei Pavement. Berman si guadagna presto rispetto e credibilità nel mondo dell’indie-alternative statunitense dagli anni Novanta in poi.
Personaggio sarcastico e fragile, Berman per gran parte della sua carriera ha scelto di non andare in tour e di non rilasciare interviste. Una vita fragile, segnata dalla dipendenza dall’alcool e dal rapporto difficilissimo con il padre, l’ex lobbista Richard Berman. Attraverso canzoni e poesie e disegni, Berman aveva pensato di poter trovare e costruire un rifugio lontano da tutto quello di male che aveva costruito il padre. I suoi racconti in musica risultano malinconici anche quando sfoggiano uno sghembo incedere allegro e spesso parlano di sconfitte e della desolazione di un certo tipo di America, suonati con un linguaggio tra folk e lo-fi come nella splendida “Trains Across The Sea” inserita in scaletta.
Berman rimase sempre l’unico punto fermo in un gruppo in cui i musicisti erano in continua rotazione. Anche la musica suonata effettuava piccole variazioni dal country al power pop almeno fino al 2009, anno in cui Berman annunciò la fine dei Silver Jews e il suo ritiro dall’attività musicale, ritenendo il suo percorso giunto al termine e preferendo concentrarsi sulle sue passioni per la scrittura, il fumetto e la poesia. Dopo 10 anni di silenzio, nel 2019, ecco Berman effetttuare un clamoroso ritorno alla musica, con un nuovo progetto con Jeremy Earl dei Woods chiamato Purple Mountains. Il disco del nuovo corso, autointitolato, è una sorta di agrodolce ritorno a casa, un Berman con la ferita ancora aperta della separazione dalla moglie Cassie che torna a raccontare le sue storie.
Disilluso, dolente, con un sorriso sarcastico impercettibilmente dipinto sul volto, con i titoli dell’album a dipingere tutto il freddo ed il buio intorno a lui, come la “Nights That Won’t Happen” che potete ascoltare nel podcast. Un disco apparentemente leggero ma incredibilmente profondo e di una bellezza straziante, un disco che si sperava fosse comunque un nuovo inizio per David Berman visto che stavolta era in programma addirittura un tour con i Purple Mountains. E invece, nemmeno un mese dopo la pubblicazione dell’album, il 7 agosto 2019, il corpo di Berman è stato trovato nel suo appartamento di Brooklyn. L’artista aveva già provato a togliersi la vita nel 2003 con un mix di cocaina, alcool e tranquillanti, ma stavolta, purtroppo, il tentativo di suicidio tramite impiccagione è riuscito, privandoci di un artista straordinario sconfitto dai suoi demoni.
L’ho detto già nello scorso podcast, i recenti album di Nick Cave li trovo difficilmente affrontabili. E se nello scorso podcast sono andato a trovare un “vecchio” (ma nemmeno troppo) album dei Bad Seeds, stavolta sono andato ancora più a ritroso nel tempo ripescando il terzo disco dei The Birthday Party pubblicato nel luglio del 1982. I “paesaggi sonori tetri e rumorosi” del gruppo, nato nel 1977 a Melbourne in piena era punk, che si rifacevano in modo irriverente al blues, al free jazz e al rockabilly, e facevano da sfondo alle inquietanti storie di violenza e perversione di Nick Cave, accompagnato dalla chitarra di Mick Harvey, dal basso di Tracy Pew, dalla batteria di Phil Calvert e, un anno più tardi, dall’ingresso fondamentale dell’altro chitarrista Rowland S. Howard.
Nel 1980 il gruppo si trasferì a Londra, ma ben presto furono disillusi dallo stato della scena musicale, trovando pochi gruppi affini come The Fall e The Pop Group. Fecero viaggi di ritorno in Australia e tournée in Europa e negli Stati Uniti prima di trasferirsi a Berlino Ovest nel 1982. Proprio nel 1982 esce il loro ultimo album in studio, Junkyard, ispirato all’immaginario gotico sudista americano, trattando argomenti estremi come la figlia assassinata di un evangelista. Le registrazioni non furono facili, in quanto il bassista Tracy Pew, in seguito all’arresto per guida in stato di ebbrezza, venne sostituito per qualche tempo da Barry Adamson, mentre Mick Harvey suonò la batteria in alcuni brani, anticipando l’imminente partenza del membro fondatore Phill Calvert e il conseguente passaggio del gruppo da quintetto a quartetto. La title track è il brano scelto per mostrare la ferocia del gruppo.
Ci stiamo avvicinando alla fine dell’anno, il che vuol dire che le temutissime classifiche stanno per arrivare. Due anni fa ero rimasto molto sorpreso dall’assoluta mancanza di italico inchiostro virtuale versato per uno dei gruppi che più mi aveva colpito: gli australiani Party Dozen. Ammetto spudoratamente che anche io ero arrivato a scoprire in netto ritardo il duo formato a Sidney dalla sassofonista Kirsty Tickle e dal batterista Jonathan Boulet, visto che l’album The Real Work era il terzo della loro discografia (il nuovo Crime In Australia è uscito da pochissimo). Un progetto nato dall’amore per l’improvvisazione, una passione che farebbe fatica a reggersi in piedi se non ci fossero della basi ben solide a sostenerla. E a sostenere i Party Dozen e a dargli un pochino di quella popolarità che meritano, ci aveva pensato proprio Nick Cave, con il suo contributo vocale a “Macca The Mutt”, uno dei brani più trascinanti dell’ultimo album in studio.
Il drumming potente di Boulet, il soffio vigoroso e le urla nel sassofono di Tickle insieme ad un uso intelligente dell’elettronica, formano un quadro intrigante e compiuto, con atmosfere variabili dal noise alla psichedelia. Un suono che riesce, come per magia, a fermarsi un attimo prima di diventare inaccessibile. The Real Work è una foschia allucinatoria tra spasmi di improvvisazione, echi di Stooges, doom, noise, jazz. Un treno che più volte rischia di deragliare e che per pura magia rimane sempre ben saldo sui binari, condotto con maestria da due musicisti capaci di sperimentare tracciando una strada adrenalinica di notevole impatto che, speriamo, non rimarrà limitata ad una fama sotterranea. La “The Worker” inserita in scaletta è solamente uno degli episodi intriganti di un disco che, lo ammetto spudoratamente, era riuscito davvero ad entusiasmarmi, tanto da scriverne la recensione del disco su OndaRock e da assegnargli la posizione #6 nella mia personale classifica.
Un gruppo britannico che non è mai riuscito ad avere la visibilità ed i riconoscimenti che meritava è stato senza dubbio i The Sound. Quartetto fondato nella zona sud di Londra nel 1979 da Adrian Borland dalle ceneri della band punk The Ousiders, Avevano tutto per sfondare, ma forse gli mancava una “specializzazione” per sfondare davvero. Era un periodo in cui c’erano ancora i punk duri e puri, iniziavano ad esserci i dark appartenenti alle legioni della new-wave, c’erano i fan della nuova psichedelia inglese. L’unica pecca, se così vogliamo chiamarla, dei The Sound, era che accontentavano tutti ma allo stesso tempo sembravano non accontentare nessuno. A guardar bene non era affatto un punto debole, ma in quel periodo andavano in maniera particolare le caratterizzazioni, sia di generi musicali sia per quanto riguarda le personalità che guidavano le band on stage.
Il gruppo fa il suo esordio nel 1980 con Jeopardy, album realizzato con un budget molto limitato, ma che riuscì a colpire moltissimo la critica musicale dell’epoca. La new-wave del gruppo si aggirava tra accelerazioni punk e momenti di desolazione, una visione introspettiva e romantica, che spesso vira verso una sorta di pessimismo cosmico. La splendida “I Can’t Escape Myself” proposta nel podcast è manifesto del loro modo trascinante di fare musica. Ma all’entusiasmo della critica non ci sarà un riscontro commerciale adeguato. Dopo il successivo e altrettanto splendido From The Lion’s Mouth, anche questo amato dalla critica ma non troppo dal pubblico, la band comincerà a subire la pressione dell’industria discografica che vuole rendere il loro suono più appetibile al grande pubblico. Il gruppo sceglierà di non adeguarsi al diktat della sua etichetta discografica spegnendosi lentamente. Lo stesso Borland tenterà una sfortunata ed inadeguata carriera solista prima di arrendersi ai proprio demoni gettandosi sotto un treno alla Wimbledon Station di Londra il 26 aprile 1999.
Grant-Lee Phillips non ha mai davvero inseguito la popolarità. La sua passione e visione musicale è stata ispirata, almeno agli inizi, dal Paisley Underground e dal post punk. Come ho più volte raccontato, insieme all’amico californiano Jeffrey Clark, aveva creato gli Shiva Burlesque, una delle band di culto di quel periodo. Un gruppo sottovalutato e rimasto sempre nell’ombra senza mai avere avuto almeno un briciolo della popolarità avuta dai Dream Syndicate o dai Rain Parade. Una volta sciolta la band, Phillips salì sul palco per una manciata di spettacoli da solista nei club di Hollywood, prima di reclutare gli ex membri degli Shiva Burlesque Joey Peters (batteria) e Paul Kimble (basso) e chiamare il nuovo gruppo Grant Lee Buffalo.
Il trio si costruì rapidamente un seguito locale, facendo il tutto esaurito nei club grazie ad alcune intense performances dal vivo. per Phillips il nuovo gruppo è stato stata la sua consacrazione in parte anche commerciale del suo talento di musicista. Fuzzy, l’album di esordio del trio formato insieme a Paul Kimble (basso) e Joey Peters (batteria), è stato uno splendido affresco di come il suo suono abbia abbandonato in parte la matrice Paisley per andare a pescare nella tradizione folk e country. Il secondo episodio intitolato Mighty Joe Moon, mostra una band dall’approccio meno muscolare e più introverso, un affascinante viaggio sulle strade blu americane che si apre con la melodia impetuosa di “Lone Star Song” con i suoi riferimenti all’omicidio di J.F. Kennedy e alla strage di Waco del 1993 dove oltre settanta persone tra agenti di polizia e davidiani persero la vita, per arrivare alla straordinaria title track inserita nel podcast. Phillips successivamente non ripeterà più le vette dei primi due lavori della sua creatura, ma continua a sfornare album dalla media qualitativa estremamente elevata.
Il power pop sotto la bandiera con la croce di Sant’Andrea ha senza alcun dubbio come gruppo di riferimento i Teenage Fanclub di Glasgow. E’ il 1986, quando Norman Blake e Raymond McGinley si uniscono al batterista Francis MacDonald e al bassista e cantante Gerard Love dando vita ad un gruppo che continua a sfornare dischi anche ai giorni nostri con il medesimo entusiasmo e con grande coerenza artistica. Un gran giorno il 4 novembre 1991 per la storica Creation Records fondata da Alan McGee. Nello stesso giorno l’etichetta pubblica Loveless dei My Bloody Valentine e quello che probabilmente resta il vertice della band scozzese: Bandwagonesque.
Un disco di frizzanti melodie e equilibrato songwriting tra rock e pop, ad inseguire Neil Young e Big Star, come nella splendida apertura di “The Concept”. Nonostante l’investitura dei Nirvana, con Kurt Cobain che aveva insistito e non poco per far aprire loro diverse date del tour di Nevermind e gli elogi della critica, l’album non riuscì mai a vendere quanto avrebbe meritato. Solo 70.000 copie nel Regno Unito, poco più del doppio negli Stati Uniti. Passano gli anni e scorrono le mode, ma il combo scozzese non ha mai rinunciato ad incidere meraviglie scintillanti come è successo anche con l’ultimo Nothing Lasts Forever uscito lo scorso anno.
Siamo a Milano negli anni ’80, un periodo turbolento musicalmente con la fiammata punk e l’onda lunga della new wave e del post punk che sembrava aver solo lambito i nostri confini ma che invece aveva attecchito nel cuore di un giovane cantante, Mauro Ermanno Giovanardi. Joe ha condotto la sua creatura, The Carnival Of Fools, attraverso tre diverse incarnazioni, una sorta di comunità di musicisti che si sono trovati intorno a un’estetica “dipinta” dallo stesso cantante e incisa sui solchi di un’etichetta importante dell’epoca come la Vox Pop. Il nome del gruppo veniva dai versi della poesia “Witt” di Patti Smith: “Un carnevale dei pazzi, dei sedotti e degli abbandonati”, una sorta di guida galattica per chi condivideva quell’inquietudine che portava ad abbattere certi schemi un po’ precostruiti e ormai stantii della canzone italiana.
Esordirono nel 1989 con l’EP Blues Get Off My Shoulder, un disco è composto da brani originali con la sola eccezione della cover di “Summertime”. La prima fase della formazione a 4 (Joe, Max Donna, Andrea Viotti e Jorge Gunther) era improntata ad un’attività live caratterizzata da concerti intensi, mentre un anno dopo entrarono nel gruppo Luca Talamazzi alla chitarra e Maurizio Raspante al basso. La Vox Pop pubblicò l’album di debutto Religious Folk nel 1992 e, con Mox Cristadoro alla batteria al posto di Max Donna, il secondo lavoro Towards The Lighted Town del 1993, dove oltre a brani originali come la “Not The Same” che potete ascoltare nel podcast, Giovanardi reinterpretò “The Fly” di Nick Drake. Fu questo il periodo di maggior successo, con alcuni show in Europa e aprendo, tra gli altri, il concerto di Nick Cave durante il tour italiano di Let Love In, nel 1994 prima dello scioglimento e della creazione di una nuova, splendida, realtà chiamata La Crus. Fortunatamente l’etichetta Area Privata ha appena ristampato tutta la loro discografia in due CD intitolati Complete Discography 1989-1993.
Chiudiamo il podcast con un gruppo che nel 2016 aveva pubblicato un album dal vivo registrato in Italia due anni prima ed intitolato Tramonto. Sembrava davvero iniziata una nuova fase per i The Van Pelt, la band indie-rock newyorkese formata da Chris Leo nel 1993 che ha all’attivo un paio di album ed una manciata di EP pubblicati prima dello scioglimento del gruppo avvenuta nel 1997. Abbiamo dovuto aspettare altri sette anni prima dell’effettiva riunione del gruppo e della pubblicazione di un nuovo album dopo ben 25 anni di silenzio. Artisan & Merchant è stato pubblicato il 17 marzo 2023, preceduto dalle attese ristampe dei due album pubblicati dal gruppo: Stealing From Our Favorite Thieves del 1996 e Sultans Of Sentiment del 1997.
Proprio quell’ultimo album in studio è stato con ogni probabilità l’apice della vena compositiva di Chris Leo (fratello di Ted Leo) Brian Maryansky, Sean Green e Neil O’ Brien. Un album pervaso da ritmi circolari, chitarre torbide, fluide e ripetitive. Il meglio del rock indipendente americano dell’epoca, come dimostra la splendida “Do The Lovers Still Meet At The Chiang Kai-Shek Memorial?”. Dopo quest’album Chris Leo e la bassista Toko Yasuda formeranno i The Lapse, band che durerà molto poco in quanto la Yasuda preferirà unirsi ai Blonde Redhead. Purtroppo la pazienza accumulata sperandoche fosse rimasta un po’ dell’antica magia nelle mani di Chris Leo e compagni non è stata premiata perché l’attesa riunione si è rivelata abbastanza mediocre. Motivo in più per riascoltare questo splendido album.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane quando parleremo del ritorno delle attesissime ristampe (finalmente) dei The God Machine, ascolteremo la psichedelia dei The Flaming Lips, ripescheremo dall’inizio degli anni 80 due gruppi fondamentali come The Fall e The Teardrop Explodes e ci faremo cullare dai ritmi tribali e sincopati dei Fell Runner. Ascolteremo due novità importanti come il nuovo Peter Perrett e l’esordio da solista per una artista navigata come Kim Deal, ci faremo trasportare nell’oscurità dai The Skull Defekts e nel deserto di frontiera dai Giant Sand. Ci sarà spazio anche per un gruppo di culto come i The Vaselines, per il meltin pot dell’Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp e per una sempre meravigliosa Laura Nyro. Il finale sarà appannaggio di due songwriters non proprio convenzionali come Richard Dawson e Roy Harper.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE BETA BAND: Dry The Rain da ‘Champion Versions – EP’ (1997 – Regal)
02. ANNA B SAVAGE: BedStuy da ‘A Common Turn’ (2021 – City Slang)
03. THE SMILE: Bending Hectic da ‘Wall Of Eyes’ (2024 – XL Recordings)
04. WILDBIRDS & PEACEDRUMS: The Battle In Water da ‘Heartcore’ (2007 – Leaf)
05. BILL CALLAHAN: Cold Discovery da ‘The Holy Grail: Bill Callahan’s “Smog” Dec. 10, 2001 Peel Session’ (2024 – Drag City)
06. SILVER JEWS: Trains Across The Sea da ‘Starlite Walker’ (1994 – Drag City)
07. PURPLE MOUNTAINS: Nights That Won’t Happen da ‘Purple Mountains’ (2019 – Drag City)
08. THE BIRTHDAY PARTY: Junkyard da ‘Junkyard’ (1982 – 4AD)
09. PARTY DOZEN: The Worker da ‘The Real Work’ (2022 – Temporary Residence Limited)
10. THE SOUND: I Can’t Escape Myself da ‘Jeopardy’ (1980 – Korova)
11. GRANT LEE BUFFALO: Mighty Joe Moon da ‘Mighty Joe Moon’ (1994 – Slash / London Records)
12. TEENAGE FANCLUB: The Concept da ‘Bandwagonesque’ (1991 – Creation Records)
13. THE CARNIVAL OF FOOLS: Not The Same da ‘Towards The Lighted Town’ (1993 – Vox Pop)
14. THE VAN PELT: Do The Lovers Still Meet At The Chiang Kai-Shek Memorial? da ‘Sultans Of Sentiment’ (1997 – Gern Blandsten)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) December 3, 2024