Ecco il quarto podcast di Sounds & Grooves per la 19° stagione di RadioRock.TO The Original
In questa nuova avventura in musica troverete un ricordo di Paul Di’Anno, tanto rumore in apertura e un viaggio avanti ed indietro nel tempo
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e dalla volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock senza disdegnare una panoramica sulla musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca,. Fortunatamente però la passione e la voglia di fare radio e di ascoltare e condividere musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Il quarto episodio stagionale parte con un ricordo dell’ex Iron Maiden Paul Di’Anno recentemente scomparso per poi andare a trovare il noise pop giapponese delle Hyper Gal e quello scurissimo australiano delle Divide And Dissolve. Parleremo poi di uno dei gruppi più influenti della storia del rock come i Sonic Youth, andremo a ritroso nel tempo per trovare un Nick Cave ispirato, ascolteremo un supergruppo come The Hard Quartet e ascolteremo la psichedelia desertica dei Thin White Rope. Ci sarà spazio per le magie rock pop di XTC, Prefab Sprout e Deacon Blue, per il ricordo del meraviglioso Elliott Smith, per il ritorno in grande stile di Tucker Zimmerman. Chiuderanno il podcast gli Arab Strap e il talento incompiuto di Chris Bell. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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In età scolastica una audiocassetta prestata da un compagno di classe è stata la scintilla che ha definitivamente acceso la mia curiosità musicale. Quel riff di chitarra che apriva la cassetta era così diverso da quello che ascoltavo all’epoca, ed è stato capace di scardinare un’intera parete facendomi passare in una nuova e diversa dimensione. Quel disco era l’esordio di un gruppo britannico che poi passerà alla storia come uno dei più famosi e longevi gruppi di Heavy Metal: gli Iron Maiden. Il gruppo nacque nel 1975 a Leyton, un quartiere situato a est di Londra, grazie al bassista Steve Harris, che aveva già militato in gruppi come Gypsy’s Kiss e Smiler. Nel clima musicale dell’epoca, dominato dal punk, ebbero inizialmente molte difficoltà a trovare spazio. La loro grande occasione per farsi conoscere venne dal Ruskin Arms, uno dei pochi locali londinesi che proponeva musica dal vivo hard rock. Oltre alla musica, la band ha sempre curato molto anche la propria scenografia, in quanto i loro concerti erano spesso accompagnati da effetti pirotecnici. In questo periodo, fece una delle prime comparse “Edward the Head”, una creatura dalle sembianze mostruose successivamente conosciuta come Eddie, la quale sarebbe divenuta la loro famosa mascotte ufficiale, presente in tutte le copertine dei dischi e dal vivo in diverse sembianze.
Gli Iron Maiden si scontrarono con le ostilità delle case discografiche che, in quel periodo, producevano soprattutto gruppi punk, tant’è che gli fu proposto di cambiare genere. Nonostante tutto i loro sforzi furono premiati riuscendo a convincere la EMI a firmare un contratto che gli permise di far uscire il loro album di debutto, che tuttora rappresenta un’importante tappa della nascente New Wave of British Heavy Metal. La formazione della band che entrò in sala di incisione per registrare il secondo Killers vedeva oltre ad Harris, il cantante Paul Di’Anno (vero nome Paul Andrews), il batterista Clive Burr, il chitarrista Dave Murray e l’altro chitarrista Adrian Smith, che aveva appena sostituito Dennis Stratton. Il disco ebbe un tale successo che per celebrare un tour trionfale venne pubblicato un mini album dal vivo Maiden Japan, di fronte al pubblico giapponese da sempre estremamente ricettivo per quanto riguarda le proposte di musica hard. Il disco, da cui propongo nel podcast proprio “Killers” è stato anche l’ultimo registrato da Di’Anno, fatto fuori dopo che l’uso di alcol e cocaina avevano creato problemi sul palco. La sua vita dopo i Maiden non è stata facile, era la vera anima punk all’interno del gruppo e dopo aver creato gruppi come Gogmagog, Di’Anno’s Battlezone, Killers, Rockfellas, e Warhorse non ha rinunciato mai a salire sul palco anche su una sedia a rotelle per condividere la sua passione. Questo inizio di podcast è un atto doveroso per ricordare un artista importante che purtroppo ci ha lasciato da pochissimo.
A questo punto dobbiamo necessariamente restare in Giappone, per trovare un duo al femminile che rinnova una tradizione noise consolidata dai Boredoms ai Melt-Banana. Da Osaka, centro culturale e cuore storico del Giappone, arrivano le Hyper Gal, un duo composto dall’artista visuale Koharu Ishida (voce e tastiere) dalla rumorista Kurumi Kadoya alla batteria. Pubblicato da un’etichetta importante e storica come la Skin Graft, After Image è il secondo album del duo giapponese che mostra la loro abilità nel cucire trame dirompenti e coinvolgenti nel nome di un ipnotico miscuglio tra noise, elettronica e ritornelli pop che entrano nel cervello per uscirne con grande difficoltà.
I nove brani in scaletta mescolano velocemente e senza sosta no wave, noise, pop e spasmi elettronici andando al di là delle barriere, dei generi e dei confini. Un assalto all’arma bianca che non lascia indifferenti, come nel caso del ritornello ossessivo di “dot dot dot” scelta per arricchire il podcast. Un disco ed una band davvero molto interessante da seguire con attenzione con mente e orecchie ben aperte.
Un disco che colpisce per impatto musicale e sociale. Gas Lit è il terzo disco pubblicato dalla sassofonista e chitarrista Takiaya Reed che insieme alla batterista e percussionista Sylvie Nehill formano un duo chiamato Divide And Dissolve. Le due musiciste vengono Melbourne, ma la loro provenienza etnica (Cherokee la prima, Maori la seconda) le ha portate ad esprimere in musica un linguaggio (curioso dirlo di un duo che fa musica esclusivamente strumentale) un estremamente potente, politico e sociale contro ogni tipo di discriminazione.
“Gas Lit è la nostra lotta per la sovranità indigena, la liberazione dei neri e degli indigeni, la restituzione dell’acqua, della terra e delle terre indigene. Gas Lit lotta contro l’espropriazione del nostro popolo, della nostra terra, della nostra acqua e del nostro spirito. Gas Lit è una chiamata alla trasformazione e alla libertà. Gas Lit vuole contribuire a minare e distruggere il quadro coloniale suprematista bianco.” Queste le loro parole, trasformate in musica in un impeto potente di scuro e ipnotico doom/drone rituale e tribale. Ad accoglierle come si deve ci ha pensato Geoff Barrow (Portishead) che ha pubblicato il disco con la sua Invada Records. Una forza immensa, un assalto frontale che non può lasciare indifferenti come dimostra la “Prove It” inserita nel podcast.
Proseguiamo il podcast con un gruppo che è stato influenza fondamentale su varie generazioni di rock americano e non solo come i Sonic Youth. Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley, pur partendo dall’avanguardia newyorchese, non hanno davvero mai ripudiato il formato della canzone rock, sperimentando, usando gli strumenti in modo totale (soprattutto grazie ad un grande uso di effettistica e accordature inusuali a rendere unico il suono della chitarra), e diventando di fatto una vera e propria istituzione della scena alternativa americana e mondiale. É sempre difficile scegliere un album dalla loro lunga e preziosa discografia.
Il doppio Daydream Nation è un capolavoro del loro modo inconfondibile di fare musica, con le parti soliste e ritmiche che si uniscono in un unico flusso sghembo ma perfettamente lucido. Lee Ranaldo e Thurston Moore seviziano le loro chitarre su una base percussiva ossessiva che trova il suo climax nella suite finale chiamata “Trilogy”. Ma anche nel loro modo sghembo e unico di concepire il rock, riescono come per incanto a far fluire ritornelli melodici e quasi pop, come nella splendida “Teen Age Riot” che da anche il titolo all’intero podcast.
Devo essere molto diretto e sincero. la nuova strada intrapresa da Nick Cave non incontra molto i miei gusti personali. Questo mettere così a nudo i propri drammi personali è estremamente comprensibile da una parte ma difficilmente sopportabile dall’altra. In ogni caso, se Cave è sempre stato un frontman assolutamente perfetto, talentuoso e carismatico, allo stesso tempo i Bad Seeds sono sempre stati molto più di un semplice gruppo di accompagnamento. Nel 2013 è uscito Push The Sky Away, quindicesimo album del gruppo, dove troviamo i Bad Seeds ridotti all’osso dopo l’abbandono da parte di Mick Harvey. Mick era con Cave già nei Birthday Party e da sempre anche architetto principe degli arrangiamenti e creatore del suono della band.
Questo rende la sua assenza ancora più difficile da affrontare rispetto a quella già ardua affrontata dagli australiani dopo l’abbandono di Blixa Bargled. E non basta il ritorno di Barry Adamson a sopperire a questo vuoto. Ma c’è un barbuto occasionale Bad Seed che da qualche anno è a tutti gli effetti il nuovo braccio destro di Cave in tutti i suoi progetti. Il “Dirty Three” Warren Ellis è in perfetta simbiosi con il re oscuro in tutti i suoi progetti: dagli allestimenti per le presentazioni dei libri ai Grinderman, dalle colonne sonore agli stessi Bad Seeds con cui collabora da Murder Ballads del 1996. Sicuramente non il miglior disco dei Bad Seeds, ma un disco impreziosito da alcune gemme come nel blues ispirato di “Jubilee Street”.
Quante volte ho parlato dei cosiddetti “supergruppi” formati da straordinari musicisti, ma il cui risultato finale è quasi sempre stato al di sotto delle aspettative. Ci riprovano, quasi per divertimento i The Hard Quartet composti da: Emmett Kelly, cantautore, chitarrista e cantante noto soprattutto per il suo lavoro nei The Cairo Gang e The Double, oltre che in compagnia di artisti come Bonnie “Prince” Billy, Ty Segall, Rob Mazurek e molti altri; Stephen Malkmus, cantautore, chitarrista e cantante noto soprattutto per il suo lavoro con i Pavement, i Jicks, i Silver Jews; Matt Sweeney, cantautore, chitarrista e cantante (Chavez, Superwolf, Super- wolves, Guided by Voices e Cat Power).
Ai tre si è aggiunto Jim White, batterista e autore di canzoni noto soprattutto per il suo lavoro con Dirty Three, Xylouris White, e con artisti come Guy Picciotto e Cat Power. Non è che l’omonimo disco sia malaccio, intendiamoci, ma da quattro pezzi da novanta del genere, magari, mi sarei aspettato un risultato più imponente, un colpo al cuore che non arriva nonostante la media sia superiore alla sufficienza. In ogni caso la “Heel Highway” inserita nel podcast è una gran bella canzone! “Nelle canzoni ci sono improvvisazioni e assoli, ma sono piuttosto brevi, e tutto è piuttosto cantabile. Le canzoni non sono così lunghe. Credo che tutti noi sapessimo, senza dirlo, che questo poteva essere un bene” Stephen Malkmus
Se il Paisley Underground è stato un importante movimento nato all’inizio degli anni ’80 sulla costa Ovest degli Stati Uniti caratterizzato da una riscoperta e dalla attualizzazione del suono psichedelico, i Thin White Rope capitanati dal cantante/chitarrista Guy Kyser e dal chitarrista Roger Kunkel, ne hanno espresso una originale variante che si discostava dai gruppi dello stesso periodo ed accomunati all’interno della stessa scena. I due leader, irrequieti già nei continui cambiamenti di sezione ritmica, hanno sempre inseguito una visione personale, dalle liriche introspettive, dagli incroci chitarristici dal grande impatto, dalla polverosa identità desertica.
IIl loro (probabilmente) miglior album risale al 1990 e si intitola Sack Full Of Silver. L’album sviluppa la visione di Kyser e compagni, la solitudine dell’individuo in grandi spazi aperti, filosofia dimostrata dalla splendida cavalcata intitolata “On The Floe”. Il disco è un approdo sui generis verso le major mantenendo la loro integrità di scrittura, ma il gruppo finirà, purtroppo, schiacciato dal grunge e da altre mode che di fatto lo costringeranno a sciogliersi, privando il grande pubblico del loro enorme fascino malinconico e irrequieto.
Una delle band pop rock più scintillanti del Regno Unito sono senza dubbio gli XTC da Swindon, nella contea del Wiltshire. L’incontro fatale tra Andy Partridge e Colin Moulding avviene alla metà degli anni ’70. I due insieme al batterista Terry Chambers formano gli Helium Kidz, che, dopo l’ingresso del tastierista Barry Andrews si trasformano negli XTC. Uno stile che prende solo in parte dalla new-wave che in quegli anni dettava legge in Gran Bretagna, iniziando la quadratura del cerchio con Drum And Wires nel 1979, primo con Dave Gregory come secondo chitarrista e tastierista al posto del dimissionario Andrews, e trovando la perfezione formale nel 1986 con Skylarking, disco prodotto (non senza dissidi in sala di incisione con la band) da Todd Rundgren. Eppure quando si mette la puntina sui solchi non c’è traccia di quello che deve essere accaduto nello studio di registrazione.
La classicità pop del gruppo raggiunge il climax con i riferimenti ai maestri del suono anni ’60 come i Beach Boys. L’ottavo album in studio del gruppo britannico non è appannaggio esclusivo dei soliti Partridge e Moulding (con il primo a firmare 9 brani su 14), ma significativo è anche stato l’apporto del chitarrista Dave Gregory nella fase di arrangiamento. Ho voluto (a malincuore) deviare dal classico “Dear God”, brano stranamente escluso dalla scaletta definitiva del disco originale, per virare su un’egualmente splendida “Grass”, scelto come primo singolo ed uno dei 5 brani firmati da Moulding.
Ho sempre avuto un debole, lo ammetto, per i songwriters riservati, timidi, ipersensibili, personaggi come Nick Drake o Tim Buckley nel passato, oppure come Mark Linkous, Daniel Johnston, Jason Molina e Vic Chesnutt nel presente. E se sono già passati tanti anni dalla perdita di Mark Linkous, ne sono passati clamorosamente ventuno da quel tremendo 21 ottobre 2003 in cui Elliott Smith ha deciso di porre fine alla sua esistenza terrena in un modo che ancora oggi non è stato mai del tutto chiarito. Nel 1994 Smith, non rispecchiandosi più nel suono rumoroso indie-punk-grunge dei suoi Heatmiser, aveva deciso di imbracciare la chitarra acustica per permettere al suo animo e alle sue sensazioni di venire fuori in maniera più naturale.
Dallo schietto e sincero folk cantautorale dell’esordio Roman Candle in cui gli accordi si succedevano con intensità e purezza sottolineando i testi malinconici e densi dei problemi quotidiani e del mal di vivere, era passato ad incidere dischi con fisionomia e arrangiamenti più corposi, ma la meraviglia e la semplicità dei suoi brani non hanno mai smesso di incantare. XO forse è stato il suo lavoro in studio più popolare, quello che lo ha fatto conoscere anche al grande pubblico, e “Waltz #1” è un brano scintillante che non può non emozionare, allora come oggi. Elliott Smith ci ha lasciato tante meraviglie, scritte ed interpretate da un artista fragile e incompreso, la cui delicata e malinconica creatività ci manca ogni giorno di più.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a moltissime “resurrezioni” musicali di artisti che erano finiti nell’oblio e sono stati ripescati da musicisti che invece sono sulla cresta dell’onda. Emblematico il caso di Bill Fay, riscoperto da Jeff Tweedy dopo 30 anni di silenzio. Tucker Zimmerman che una ventina di anni fa aveva avuto un inaspettato endorsement da parte di David Bowie, innamorato del suo esordio Ten Songs del 1969, aveva scelto all’inizio degli anni 80 la strada letteraria lasciando in disparte la musica poi ripresa con il suo Nightshift trio nel 2005 rimanendo però costantemente nell’ombra. Tutto fino a quando Adrianne Lenker dei Big Thief non si innamora del “song poet” californiano.
Per farla breve, la Lenker ha contattato l’ottantatreenne cantautore, ha suonato insieme a lui alcune canzoni che il cantautore ha ripescato da un cassetto polveroso, e ha deciso, insieme ai suoi compagni di band, di inciderle e farle pubblicare dalla 4AD. Il risultato è Dance Of Love, una serie di preziose miniature: “mormorii che potrebbero sollevarci al di sopra delle nostre preoccupazioni e paure quotidiane”. Una serie di piccole magie e carezze dell’anima, suonate ed interpretate con dolcezza e passione. Ascoltate la meravigliosa “Burial At Sea” inserita nel podcast.
Nonostante quello che si possa pensare, non è mai facile fare pop di gran classe. C’è un musicista che delizia da anni i nostri padiglioni auricolari: il prode Paddy McAloon che ha saputo coniugare, alla guida dei Prefab Sprout, liriche intelligenti e con la giusta dose di ironia a un percorso musicale scintillante lastricato del miglior suono possibile. Il genio del pop britannico, dopo aver esordito con il buon Swoon nel 1984, fa centro pieno un anno più tardi con Steve Mc Queen, che trainato dalla produzione di Thomas Dolby e dal singolo “Appetite” colpisce il cuore di molti. La classe compositiva di McAloon unito alle sue colte citazioni letterarie e cinematografiche colpiscono nel segno
Lasciando perdere l’indimenticabile copertina che vede i quattro componenti della band, insieme sulla motocicletta Triumph che Steve McQueen usò nel film La Grande Fuga, il grande artigiano del pop ha proseguito la sua traiettoria, anche dovendo barcamenarsi con difficolta tra seri problemi di vista e di udito. Parabola terminata nel 2013 con il decimo album del gruppo intitolato Crimson/Red, dove McAloon scrive, canta e suona ogni nota. Il disco si apre con un brano intitolato “The Best Jewel Thief In The World”, ma in realtà McAloon lo vedo più come uno straordinario prestigiatore o come un creatore di gioielli più che come un ladro. Un ritorno splendido che però, purtroppo, è rimasto anche come l’ultimo lavoro pubblicato a nome Prefab Sprout.
Era il 1998 quando la pubblicazione di Philophobia, secondo album degli Arab Strap, gettò nel caos la piccola comunità scozzese di Falkirk. Alcuni piccoli e grandi segreti di alcuni dei 35.000 abitanti della città posizionata nella Forth Valley furono messi clamorosamente in piazza in maniera nuda, scarna, lenta e sofferta dalla voce narrante di Aidan Moffat e dagli arpeggi di Malcolm Middleton. L’esordio del duo scozzese era formato da canzoni malinconiche che parlavano di debolezze quotidiane, di sbornie, scopate e tradimenti. Canzoni che riescono ad arrivare dritte allo stomaco anche dopo tutti questi anni, visto che il disco è del 1998 e lo scioglimento del sodalizio scozzese risale al 2006. Era con la loro tipica ironia che annunciavano il loro ritiro dalle scene come duo con una compilation intitolata Ten Years Of Tears, con i due immortalati in copertina con faccia imbronciata sui lati opposti di un tavolo in una sala dove si era celebrata la loro festa di addio (con un eloquente striscione “Enjoy Your Retirement”).
Nonostante i dischi solisti dei due ci abbiano regalato più di qualche gioia (soprattutto i progetti solisti di Moffat a nome Nyx Nótt) ci mancava quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. La notizia del ritorno del duo nel 2016 ci aveva scaldato il cuore, ma, come sempre avviene sulle reunion dei gruppi che abbiamo amato molto, poi è subentrata la paura. Il timore della delusione, di non ritrovare gli stessi Moffat-Middleton. Ma già dalle prime note di As Days Get Dark si capisce che sono sempre loro. Dietro ad arrangiamenti perfetti e raffinati troviamo quella miscela di cinismo e sentimento, di depressione ed ironia che nella loro fortunata carriera insieme hanno saputo quasi sempre regalarci. “Another Clockwork Day” è l’ennesimo esempio di come il duo riesca ancora ad entrare emotivamente sottopelle narrando in maniera cinica ed emotiva la cruda realtà della vita di provincia.
Rimaniamo in Scozia spostandoci verso la capitale industriale del paese: Glasgow. Siamo a metà anni ’80 quando Ricky Ross si sposta da Dundee per approdare a Glasgow. Qui incontra Lorraine McIntosh, che sposerà cinque anni più tardi, creando il primo nucleo di un gruppo che prende il nome da una canzone degli Steely Dan. I Deacon Blue vedono, oltre alle voci dei due compagni nella vita privata, la chitarra di Graeme Kelling, il basso di Ewen Vernal, la batteria di Dougie Vipond e le tastiere di James Prime. nel 1986 il sestetto entra in sala di incisione per preparare l’album di esordio con la supervisione del produttore Jon Kelly e due super ospiti come Chris Rea e B.J. Cole.
Il 26 Maggio 1987 esce Raintown, titolo e copertina dedicate a Glasgow, con una fotografia della città scozzese (del fotografo italo-scozzese Oscar Marzaroli) delle banchine del fiume Clyde scattata da Kelvingrove Park. Un pop che strizzava l’occhio al soul, tutto condito dalla tipica malinconia scozzese che affiorava anche nei brani più spensierati e tirati. Un disco che a distanza di tanti anni mantiene ancora il suo fascino assoluto come dimostra la title track inserita nel podcast. Se possibile il secondo When the World Knows Your Name avrà ancora più successo, arrivando in cima alle classifiche britanniche, prima di un lento declino che porterà allo scioglimento. Il gruppo però si è riformato nel 1999, pur non raggiungendo mai le vette dei primi due lavori.
Chris Bell è stato l’artefice insieme ad Alex Chilton di quella magia e perfezione melodica chiamata Big Star. Nel capolavoro “#1 Record” i due si dividono la scrittura, richiamando un po’ quello che avveniva tra Lennon e McCartney nei Beatles ed inventando in qualche modo quel sottogenere che verrà tramandato come power pop. L’album di esordio ebbe un gran riscontro da parte della critica ma non fu promosso a dovere e il ritorno in termini di copie vendute fu disastroso. Demoralizzato dagli eventi, dal fatto che Chilton aveva ormai assunto la leadership e disgustato dalle regole del music business, Bell decide di uscire dal gruppo.
Nel giro di pochi mesi entra in depressione e si lascia andare all’abuso di alcool e droghe pesanti. Prova ad intraprendere una carriera solista registrando molte canzoni nel periodo 1974-75, ma non farà in tempo a pubblicarle perché perderà la vita il 27 dicembre 1978 a soli 27 anni a causa di un incidente stradale, mentre si trovava a bordo della sua Triumph TR7. Fortunatamente per noi l’album è stato pubblicato postumo nel 1992 con il nome di I Am The Cosmos, e proprio da questo album ho voluto chiudere il podcast con la meravigliosa “Speed Of Sound” a dimostrazione del grande talento compositivo di un ragazzo che ci ha lasciato troppo presto.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane quando parleremo del talento incompiuto di David Berman, rivivremo la scena clou di Alta Fedeltà grazie ai The Beta Band, ascolteremo i The Smile e l’esordio meravigliosamente inquieto di Anna B Savage. Ci sarà spazio per un Bill Callahan di annata, per il ripescaggio del folk spoglio e affascinante di Wildbirds & Peacedrums, della forza dirompente dei Birthday Party e per i sottovalutatissimi The Sound. Dopo l’americana ispirata dei Grant Lee Buffalo e il power pop scintillante dei Teenage Fanclub chiuderemo ritrovando uno dei migliori gruppi italici come i The Carnival Of Fools di Mauro Ermanno Giovanardi e l’indie rock perfetto dei The Van Pelt.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. IRON MAIDEN: Killers da ‘Maiden Japan’ (1981 – EMI)
02. HYPER GAL: dot dot dot da ‘After Image’ (2024 – Skin Graft Records)
03. DIVIDE AND DISSOLVE: Prove It da ‘Gas Lit’ (2021 – Invada)
04. SONIC YOUTH: Teen Age Riot da ‘Daydream Nation’ (1988 – Blast First)
05. NICK CAVE & THE BAD SEEDS: Jubilee Street da ‘Push The Sky Away’ (2013 – Bad Seed Ltd.)
06. THE HARD QUARTET: Heel Highway da ‘The Hard Quartet’ (2024 – Matador)
07. THIN WHITE ROPE: On The Floe da ‘Sack Full Of Silver’ (1990 – Frontier Records)
08. XTC: Grass da ‘Skylarking’ (1986 – Virgin)
09. ELLIOTT SMITH: Waltz #1 da ‘XO’ (1998 – DreamWorks Records)
10. TUCKER ZIMMERMAN: Burial At Sea da ‘Dance Of Love’ (2024 – 4AD)
11. PREFAB SPROUT: The Best Jewel Thief In The World da ‘Crimson / Red’ (2013 – Icebreaker Records)
12. ARAB STRAP: Another Clockwork Day da ‘As Days Get Dark’ (2021 – Rock Action Records)
13. DEACON BLUE: Raintown da ‘Raintown’ (1987 – CBS)
14. CHRIS BELL: Speed Of Sound da ‘I Am The Cosmos’ (1992 – Rykodisc)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) October 22, 2024