Ecco il primo podcast di Sounds & Grooves della 19° stagione di RadioRock.TO The Original
Una buona metà della prima avventura stagionale è dedicata ad alcuni degli album più interessanti usciti negli ultimi mesi
A pensarci è incredibile che siano passati 19 anni da quando questa folle ma fantastica avventura chiamata Radiorock.to The Original è iniziata. Folle perché ormai la parola podcast è entrata di diritto nel lessico comune e sono migliaia i podcast musicali, di attualità o di qualsiasi altro argomento a disposizione di chiunque. Ma diciannove anni fa è stata una vera e propria scommessa di un manipolo di matti inebriati dalla passione per la musica e per una volontà di rendere facilmente fruibile un palinsesto che potesse parlare prevalentemente di rock ma anche di musica di qualità a 360 gradi. La nostra motivazione è stata quella di dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000. Tra il 1996 ed il 2000 molti di noi hanno lasciato progressivamente la radio in FM al suo destino ma l’idea non poteva essere replicata nell’etere visti i costi e la situazione legislativa dell’FM dell’epoca, ma fortunatamente la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild ed io proveremo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Il secondo episodio stagionale parte con la visione sinfonico-apocalittica della musica industriale secondo J.G. Thirlwell aka Foetus per poi trovare le nevrosi di David Thomas & Two Pale Boys, il rock psichedelico dei barbuti fratelli Pontiak e le scure derive folk dei 16 Horsepower. Ci sono anche alcune novità importanti come il ritorno di Matt Johnson con la sigla The The, la splendida malinconia di Bill Ryder-Jones, lo straordinario ritorno della torrenziale connessione italo-americana chiamata The J. & F. Band e il nuovo, epico, progetto di Efrim Menuck (GY!BE) insieme a Mathieu Ball (BIG|BRAVE) chiamato We Are Winter’s Blue And Radiant Children. C’è spazio anche per ripescare l’esordio degli Eels, la follia naif e giocosa di Kevin Ayers, il suono di Canterbury attualizzato dagli Ultramarine e il post-rock tra dub e funk degli UI. Il gran finale è nelle mani degli Everything But The Girl di annata e dal suono cinematico dei The Future Sound Of London. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Iniziamo il podcast con un artista sempre troppo sottovalutato. James George Thirlwell non è mai stato un personaggio “normale”. Australiano trapiantato a Londra alla fine degli anni ’70, ha avuto modo di entrare in contatto con gruppi come Throbbing Gristle, Birthday Party, Cabaret Voltaire, Nurse With Wound che hanno contribuito a plasmare la sua personale visione sinfonico-apocalittica della musica industriale. Agendo dietro al moniker di Foetus declinato in diverse varianti (You’ve Got Foetus On Your Breath, Foetus Interruptus, Scraping Foetus Off The Wheel), manipola suoni rappresentando il caposaldo dell’industrial music dell’epoca.
Nail uscito nel 1985 è l’apice della sua fantasia visionaria, prendendo in prestito la magniloquenza di Richard Wagner, e piegandola ai suoi scopi di potente e dinamitarda discesa degli inferi accompagnata dalla fanfara. Ecco che “Descent Into The Inferno” diventa una sorta di mostro mutante mezzo punk e mezzo synth-pop, dove il sarcastico ed efferato Thirlwell ci guida verso una solenne e tenebrosa esaltazione. L’album è il capolavoro di un artista tanto misconosciuto e sottovalutato quanto di enorme talento.
Artista tanto spigoloso quanto fondamentale nella storia del rock, David Thomas ha davvero scritto pagine indimenticabili con i Rocket From The Tombs ma soprattutto con i Pere Ubu. Il gruppo di Cleveland è stato capace di trasformare il gusto della satira, l’amore per il grottesco, l’anarchia e la sfrenata verbosità dell’opera di Alfred Jarry da cui hanno preso il nome in un post-punk che di fatto con le sue nevrosi urbane ed industriali è andato a creare di fatto la new wave. A metà anni ’90 a Thomas venne l’idea di creare una nuova band con dei musicisti britannici. Il suo manager dell’epoca suggerì prima il chitarrista Keith Moliné (Infidel, Mesmerist) e, poco dopo, il trombettista Andy Diagram (Diagram Brothers, James, e Spaceheads) capace di suonare aiutandosi con delay, echi e filtri elettronici.
Ribattezzatosi David Thomas And Two Pale Boys, il trio ha esordito nel 1996 con l’ottimo Erewhon, in cui le nevrosi post-punk ben conosciute vanno ad intersecarsi con traiettorie sgraziate e oblique che vanno a pescare dal folk e dall’art-rock. Una proposta mai facile ed accomodante, per un trio che non somiglia a niente altro che a loro stessi. Nel 2004 18 Monkeys On A Dead Man’s Chest prosegue il loro viaggio nell’arte e nella poesia, e “New Orleans Fuzz” non è altro che il primo brano di un album, come gli altri, superlativo. Andy Diagram collaborerà saltuariamente con i Pere Ubu mentre Keith Molinè ne è ormai un membro effettivo dal 2005.
Dove saranno andati a finire i miei tre amati fratelloni barbuti e bucolici Jennings, Lain e Van Carney, meglio conosciuti come Pontiak? Si saranno persi tra le accidentate e nebbiose salite delle Blue Ridge Mountains, in Virginia, oppure si saranno dedicati esclusivamente al loro birrificio artigianale creato all’interno della fattoria Carney? Domande che spero potranno avere risposta visto che il loro approccio e la loro creatività gli ha permesso di pubblicare una discografia quasi perfetta che li ha consacrati come una delle migliori band di rock psichedelico del nuovo millennio, capace di standard qualitativi elevatissimi.
Nel 2014 Innocence mi aveva lasciato in bocca un sapore agrodolce che mi aveva fatto temere per la sorte futura dei Pontiak. Paura che si era dissolta tre anni dopo appena messa la puntina sui solchi di Dialectic Of Ignorance. album che, al contrario, aveva segnato un deciso cambio di passo in avanti. Il tappeto di tastiere ed il rullante ovattato che batte nelle tempie del primo singolo “Ignorance Make Me High” ha un andamento ottundente e colpisce per le dinamiche fuzz che lasciano il brano in perenne sospensione. Dal 2017 è calato il silenzio sulle Blue Ridge Mountains. Speriamo che possa essere interrotto con i riffoni potenti e lisergici cui ci hanno abituato.
Un gran personaggio David Eugene Edwards. Circondato da un’aura di spiritualità sin dalla nascita, essendo figlio di un pastore metodista. Il giovane David Eugene ha deciso di esprimere la propria concezione religiosa in modo completamente diverso da quello del genitore. Trasferitosi in California da Denver all’inizio degli anni ’90, non perde tempo creando una band dove poter convogliare le sue esperienze musicali e religiose. I 16 Horsepower, già dal debutto avvenuto nel 1995, mostrano un personale e viscerale impasto di folk e blues mescolato con l’oscura spiritualità del leader. Dopo 5 album che hanno saputo mantenere un ottimo livello qualitativo, Edwards ha creato un side project che in breve tempo è diventato il suo progetto principale visto il quasi immediato scioglimento della sigla 16 Horsepower nel momento della creazione dei Wovenhand.
Ma riavvolgiamo il nastro e torniamo al 1995. Il nome del gruppo derivava dalla frustrazione del leader dovuta dall’idea sbagliata che il nome Horsepower fosse legato all’eroina. L’ispirazione era poi venuta da una tradizionale canzone popolare americana che parlava di sedici cavalli che trainavano la bara della persona amata al cimitero. Dopo la pubblicazione di un mini album Edwards insieme ai suoi due compagni di avventura, Jean-Yves Tola alla batteria e Keven Soll al basso, contrabasso e violoncello, entrano negli storici Ardent Studios di Memphis, Tennessee per registrare il loro primo lavoro sulla lunga distanza. Sackcloth ‘n’ Ashes è stato pubblicato nel febbraio 1996 mostrando tutta l’originalità di un gruppo che, pur partendo dalle solide basi della tradizione, la declinava in maniera personale inserendo testi ispirati da una forte religiosità e da oscure trame di sottofondo come dimostra la “Black Soul Choir” inserita in scaletta.
Non più tardi di qualche episodio fa abbiamo parlato della grande media qualitativa delle nuove uscite di casa Constellation. In attesa della pubblicazione del nuovo Goldspeed You! Black Emperor prevista per il 4 ottobre, l’instancabile Efrim Manuel Menuck (Thee Silver Mt. Zion, All Hands_Make Light)ha creato un nuovo progetto dal nome ridondante. We Are Winter’s Blue And Radiant Children (abbreviato in WAWBARC), questo quartetto nuovo di zecca, vede la presenza di Mathieu Ball (chitarrista dei mai troppo lodati BIG|BRAVE), Jonathan Downs (chitarra, synth e voce) e Patch One (lapsteel, basso e batteria), questi ultimi due componenti degli Ada.
L’esordio No More Apocalypse Father è composto da sei brani di media lunghezza per 45 minuti di musica come sempre bella, epica, ad ampio respiro. Un afflato emozionale e profondo in cui si ritrovano in qualche modo quasi tutti i gruppi che volteggiano (è proprio il caso di dirlo) intorno al fulcro urgente ed estatico dei GY!BE. Una sorta di lenta psichedelia malinconica che ci avvolge con le sue spire fino a quando non ne possiamo fare a meno. La title track inserita in scaletta sparge solo una parte della loro infinita magia e catarsi emozionale.
Nel novembre del 1977, un ragazzo di sedici anni chiamato Matt Johnson pubblicò un annuncio sul NME per cercare un bassista e un chitarrista solista che fossero nella scia dei Velvet Underground e di Syd Barrett. In un secondo annuncio sulla stessa rivista, Johnson corresse il tiro indicando come influenze i The Residents e i Throbbing Gristle. Intanto, mentre cercava di mettere in piedi il suo gruppo, nel 1978 Johnson aveva registrato un album demo da solista (See Without Being Seen), che continuò a vendere su cassette in vari concerti underground. L’esordio solista come Matt Johnson, Burning Blue Soul, venne pubblicato nel 1981 sotto l’ala protettrice di Ivo Watts-Russell e della sua etichetta, la 4AD. Sempre in bilico fra melodie e sperimentazioni, Johnson ha poi creato la sua creatura mutante, chiamandola The The, con cui plasmare la sua visione musicale complessa e accessibile allo stesso tempo.
Eh sì, spesso ci si dimentica di lui, ma Matt Johnson è davvero un personaggio importante nella scena musicale inglese a partire dagli anni ’80. I The The sono la sua fluida creatura, una sorta di collettivo in continua mutazione con cui ha sviluppato il suo canovaccio sonoro dal 1983 fino ad arrivare alle colonne sonore dei giorni nostri. Come detto era da NakedSelf del 1999 che Johnson non pubblicava un album di canzoni vere e proprie, silenzio interrotto da poco con l’uscita di Ensoulment, registrato nei Real World Studios vicino a Bath, grazie all’unione con i membri di lunga data dei The The James Eller (basso), DC Collard (tastiere), Earl Harvin (batteria) e Barrie Cadogan (chitarra solista). Johnson non ha paura di affrontare la complessità emotiva insita nella condizione umana e il disco scorre che è una meraviglia fino alla conclusiva “A Rainy Day in May”. Un ritorno estremamente gradito,
Ha ormai 61 anni Mark Oliver Everett, cantante, chitarrista, autore, più conosciuto semplicemente come E o Mr.E, leader della band Eels. La sua grande abilità di songwriter ha sempre dovuto fare i conti con una vita che gli ha spesso riservato un conto salato da pagare: fu lui diciannovenne a trovare il cadavere del padre (il noto fisico Hugh Everett III, creatore dell’Interpretazione a molti mondi della Meccanica quantistica) deceduto per un infarto, e ha dovuto trascorrere la sua adolescenza facendo i conti con il dramma della sorella, che soffriva di gravi disturbi psichici causati soprattutto dalla dipendenza da sostanze stupefacenti.
Il suo modo personale di uscire dal dolore si è trasformato in un’abilità incredibile nel mettere a nudo anche i lutti più personali (la sorella morirà suicida nel 1996 e la madre nel 1998 per un cancro ai polmoni) scrivendo canzoni allegre su temi tristi e canzoni tristi sulla felicità. L’album che lo ha lanciato nell’olimpo dei songwriters è stato Beautiful Freak, che nel 1996 ha mostrato al mondo la sua abilità nel miscelare con ironica maestria lo-fi, pop e rock come dimostra la splendida “Susan’s House“. Il suo ultimo album, uscito pochi mesi fa, si intitola Eels Time!, il quindicesimo della sua lunga e splendida carriera che inizia a mostrare qualche crepa.
Loro sono un gruppo formato da musicisti statunitensi ed italiani capace di mettere insieme le anime della musica a stelle e strisce in maniera fantastica ed irrefrenabile. E’ tornata la straordinaria The J. & F. Band capitanata da uno dei fondatori della Allman Brothers Band, il batterista Jaimoe Johanson, insieme al bassista Joe Fonda. Il nuovo viaggio musicale intrapreso dalla band con ★ Star Motel ★: An American Music Experience spazia dal blues di Chicago del Nord-Est, con la Route 66, al funk del profondo Sud, andando verso Ovest fino a L.A. passando per Nogales, in Arizona, per incontrare il fantasma di Mingus e le sue visioni, per tornare attraverso le Grandi Pianure dove il Rez è lo stile di vita di molti.
Per finire dove tutto è iniziato, nel Sud-Est del paese e delle vibrazioni funky. Ad accompagnare i due titolari della sigla ci sono Tiziano Tononi alla batteria, Paolo Durante al piano, hammond, synth e mellotron, David Grissom e Craig Green alle chitarre, Jon Irabagon al sax tenore, Emanuele Parrini al violino e Bobby Lee Rodgers a voce e chitarra. Una super band capace di divertirsi con un doppio album (primo di canzoni, il secondo di jam sessions strumentali) sempre perfettamente calibrato e messo a fuoco, grazie anche alla bravura del produttore Fabrizio Perissinotto e alla alla passione di un’etichetta straordinaria come la milanese Long Song Records. Un album che non dovrebbe mancare nella collezione di un’amante della musica americana. Se non credete alle mie parole ascoltate la trascinante “Star Motel” inserita nel podcast.
Cambiamo atmosfere, andiamo a trovare un personaggio tanto schivo e pigro per sua stessa ammissione quanto geniale e centrale per una delle scene più importanti degli anni ’70: la psichedelia britannica e la scena di Canterbury. Kevin Ayers è stato il bassista di una formazione centrale del movimento come i Soft Machine, prima di lasciare la band dopo una lunga tournee americana a supporto della Jimi Hendrix Experience. Stressato dalla vita on the road si trasferì insieme a quell’altro pazzoide di Daevid Allen ad Ibiza dove iniziò a comporre una serie di canzoni che conquistarono facilmente il produttore Peter Jenner, pronto a registrare il suo primo album da solista.
Joy Of A Toy è stato uno dei primissimi album pubblicati dalla neonata etichetta Harvest Records (sezione progressive della EMI), la stessa dei Pink Floyd. Il titolo dell’album si riferisce sia ad un brano del primo album dei Soft Machine che alla sua gioia nel giocare con gli strumenti, i brani sono pervasi da una giocosità infantile appena velata da un’adulta malinconia, un disco complesso in bilico tra psichedelia, folk, allegorie e sperimentazioni. “Song For Insane Times” vede suonare insieme ad Ayers i Soft Machine al completo, con una melodia tra jazz e canterbury esplicitata in tempi dispari con un gran finale dell’organo di Mike Ratledge.
Abbiamo parlato moltissime volte di post-rock, quel genere in qualche modo codificato da Simon Reynolds i cui confini però sono piuttosto labili. Il rock che dalla terrazza degli anni ’90 si affaccia al nuovo millennio è fatto soprattutto di album molto più che di gruppi, e gli stessi album ed artisti spesso sono riconoscibili per l’appartenenza ad una etichetta particolare. Gli Ui sono stati spesso inseriti in questo genere, in parte perché, come molti altri, avevano delegittimato lo strumento principe del rock, la chitarra, ma soprattutto per le loro influenze più disparate tra dub e funk. Nati a New York City nel 1990 stati una sorta di precursori del genere, visto che già nel 1991 avevano al loro interno un DJ, amavano il dub ed il jazz elettrico e manipolavano nastri.
La loro formazione (capitanata da Sasha Frere-Jones) aveva in organico 2 bassisti un batterista ed un dj. Venivano da NYC e quando esordiscono su disco non c’è più traccia del DJ, ma la vena jazz e le derive dub e funk sono ben visibili. Le loro canzoni sono state spesso descritte come “bass-heavy”, in quanto utilizzavano spesso proprio il doppio basso di Frere-Jones e di WIlbo Wright. Probabilmente il loro apice è stato proprio lo splendido debutto intitolato Sidelong uscito nel 1995 per la Southern. Un album elegante, dinamico e psichedelico come sapeva esserlo il Miles Davis della svolta elettrica. “August Song” è proprio il primo brano del disco. Il gruppo si è sciolto nel 2002, poco dopo la registrazione di Answers, il loro terzo album.
“Credo che nel corso degli anni la mia musica abbia perso un po’ di speranza. Era importante per me fare un disco che avesse più consapevolezza e prospettiva. Anche per i miei standard, gli ultimi anni sono stati duri, ma ho scelto di fare da colonna sonora con una musica più positiva. Amo questo album. Non ero così orgoglioso di un disco da tanti anni”. Così l’ex The Coral Bill Ryder-Jones ha parlato di Iechyd Da (“buona salute” in gallese) il suo nuovo album solista arrivato dopo cinque anni di silenzio. In realtà in questi anni il musicista inglese non è stato certamente con le mani in mano, avendo prodotto nei suoi Yawn Studios di West Kirby, nel Merseyside artisti del calibro di Michael Head, Saint Saviour e Brooke Bentham.
Il nuovo album è probabilmente il più ambizioso della carriera di Ryder-Jones, rifinito con la consapevolezza del produttore ormai navigato e ricco di contenuti diversi, gioiosi e intimisti, raffinati e ricchi di romanticismo. Un disco coccolato e rifinito negli ultimi tre anni, dove nulla è lasciato al caso. La copertina dell’album raffigura il dipinto di una casa rosa pastello illuminata dalla luna nel villaggio di pescatori scozzese di Crail. “Quel quadro era troppo bello, mi ricordava la sicurezza di una casa. Voglio che questo disco possa essere considerato come una casa accogliente, dove la gente possa venire e sentirsi al sicuro, come lo sono per me i miei dischi preferiti”. Ascoltando la meravigliosa “This Can’t Go On” dai sapori Mercury Rev, direi che l’obiettivo del musicista inglese è stato sicuramente centrato.
Negli anni novanta, un duo britannico formato da Paul Hammond e Ian Cooper, decide di lasciarsi alle spalle l’ensemble industriale A Primary Industry per crearsi una nuova identità sonora. Ribattezzati Ultramarine, i due provano la curiosa e non facile unione tra la scena che negli anni ’70 ha marchiato in maniera importante la città di Canterbury e la scena elettronica e techno degli anni ’90. Dopo due album in cui il duo cerca di mettere a fuoco questa esplosiva miscela tra pop, elettronica e progressive, finalmente mel 1993 arriva la quadratura del cerchio con la pubblicazione di un lavoro intitolato United Kingdoms.
Le fonti sonore sono quelle già elencate, con spruzzate di dub e jazz a rendere l’alchimia sonora ancora più interessante. Gli arrangiamenti sono calibrati a puntino ed effervescenti al punto giusto, e, a rendere il tutto ancora più vicino alla scuola di Canterbury, ecco che i due chiamano a collaborare in alcune tracce proprio uno dei personaggi più rappresentativi di quella scena. Ascoltare Robert Wyatt in “Kingdom” (una delle tre tracce in cui appare l’ex Soft Machine) è come tornare indietro nel tempo con un suono attualizzato, una vera e propria goduria per le orecchie. Il duo è tornato sulle scene due anni fa con ben due album usciti quasi in contemporanea, entrambi di notevole fattura.
Tracey Thorn e Ben Watt sono due songwriters che hanno le stesse radici ben piantate in un terreno di folk crepuscolare ed intimista. la prima con le Marine Girls, il secondo che da solista aveva dato alle stampe nel 1983 lo splendido North Marine Drive. Il loro incontro fu importante per la loro professione e per la loro vita privata. Sul palco come Everything But The Girl e nella vita come marito e moglie. Le loro voci (straordinaria quella di Tracey) e le loro capacità compositive hanno dato vita ad un progetto che dalla prima uscita si rivela estremamente importante. Eden è un disco composto e suonato in punta di piedi, in equilibrio perfettamente dosato tra folk, jazz, pop. Un disco di una delicatezza e classe straordinari, una sequenza di gemme senza alcun momento di stasi.
Dal primo singolo “Each And Everyone” al dolcissimo finale di “Soft Touch” scritto e cantato da Watt non c’è un solo momento minore. Difficile trovare una sola traccia da inserire nel podcast. Alla fine la scelta è caduta sulla meravigliosa “The Spice Of Life” scritta ed interpretata da Tracey Thorn su un tappeto morbidissimo formato dalla acustica e dall’hammond di Watt e dalle percussioni di Bosco De Oliveira e Charles Hayward. Più tardi troveremo la voce di Tracey nella jazzata “The Paris Match” inserita nel classico Cafè Bleu degli Style Council e nel decennio successivo nella title track di Protection dei Bristoliani Massive Attack, preludio alla svolta elettronica del duo. Pur non incidendo più in coppia, Ben Watt e Tracey Thorn ancora deliziano i nostri padiglioni auricolari con album solisti di qualità più che sufficiente. il duo si è ripresentato a sorpresa lo scorso aprile con un nuovo lavoro intitolato Fuse.
Stavolta la notissima rubrica “dischi che non ricordavo di avere” si palesa proprio in finale di trasmissione. Garry Cobain e Brian Dougans si sono incontrati a metà degli anni Ottanta mentre studiavano elettronica all’università di Manchester. Dougans già era attivo tra Glasgow e Manchester, quando i due iniziarono a lavorare insieme nei club locali. Nel 1988, Dougans ha intrapreso un progetto per lo studio grafico Stakker, che è sfociato nel singolo “Stakker Humanoid” che ha raggiunto il numero 17 nelle classifiche del Regno Unito, introducendo l’acid house al pubblico mainstream. Negli anni successivi la coppia ha prodotto musica con diversi pseudonimi fino ad approdare nel 1992 alla ragione sociale di The Future Sound Of London con l’album Accelerator.
Subito dopo ecco il contratto con la major Virgin e la pubblicazione di ISDN, titolo che si riferiva ad una tipologia di telecomunicazioni che ora può apparire datata ma che nel 1994 viveva la sua maggior diffusione nel mondo come protocollo all’avanguardia. Un approccio tra ambient, techno e psichedelia che in qualche modo sarà molto influente negli anni a venire. Due anni dopo è stata la volta di Dead Cities, forse l’album più riuscito del duo. “My Kingom”, brano di punta del disco, riusciva a mettere insieme il riff di chitarra di “Phalarn Dawn” degli Ozric Tentacles, il flauto della colonna sonora di C’era Una Volta In America e il sample vocale di Mary Hopkin dalla colonna sonora di Blade Runner, un assemblaggio cyber-fantasioso dall’impatto devastante che chiude il podcast in maniera assolutamente suggestiva.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Ci risentiamo tra due settimane quando parleremo del ritorno dei Jesus Lizard, dei magnifici anni ’90 dell’etichetta Too Pure con i misconosciuti Long Fin Killie e Jack, e ripescheremo i sempre attuali e straordinari Massive Attack.
Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Per suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Potete ascoltare o scaricare il podcast anche dal sito di Radio Rock The Original cliccando sulla barra qui sotto.
Buon Ascolto
TRACKLIST
01. Scraping FOETUS Off The Wheel: Descent Into The Inferno da ‘Nail’ (1985 – Self Immolation / Some Bizzare)
02. DAVID THOMAS & TWO PALE BOYS: New Orleans Fuzz da ‘18 Monkeys On A Dead Man’s Chest’ (2004 – Glitterhouse Records)
03. PONTIAK: Ignorance Makes Me High da ‘Dialectic Of Ignorance’ (2017 – Thrill Jockey)
04. 16 HORSEPOWER: Black Soul Choir da ‘Sackcloth ‘N’ Ashes’ (1995 – A&M Records)
05. WE ARE WINTER’S BLUE AND RADIANT CHILDREN: No More Apocalypse Father da ‘No More Apocalypse Father’ (2024 – Constellation)
06. THE THE: A Rainy Day in May da ‘Ensoulment’ (2024 – Cineola / earMusic)
07. EELS: Susan’s House da ‘Beautiful Freak’ (1996 – DreamWorks Records)
08. THE J. & F. BAND: Star Motel da ‘★ Star Motel ★: An American Music Experience’ (2024 – Long Song Records)
09. KEVIN AYERS: Song For Insane Times da ‘Joy Of A Toy’ (1969 – Harvest)
10. UI: August Song da ‘Sidelong’ (1995 – Southern Records)
11. BILL RYDER-JONES: This Can’t Go On da ‘Iechyd Da’ (2024 – Domino)
12. ULTRAMARINE: Kingdom da ‘United Kingdoms’ (1993 – Blanco Y Negro)
13. EVERYTHING BUT THE GIRL: The Spice Of Life da ‘Eden’ (1984 – Blanco Y Negro)
14. THE FUTURE SOUND OF LONDON: My Kingdom da ‘Dead Cities’ (1986 – Virgin)
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— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) September 27, 2024