Il primo podcast di Sounds & Grooves per il 18° anno di RadioRock.TO The Original
Nella prima avventura in musica stagionale troverete nuove suggestioni e vecchi capolavori
Torna dopo la pausa estiva l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 18° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. 18 anni…siamo diventati maggiorenni!!!! A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) sappiate, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con quella meravigliosa radio del passato che molti custodiscono nel cuore e a cui ho provato a dare un piccolo contributo dal 1991 al 2000.
Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da tanto tempo, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata.
Questa creatura dopo quasi 4 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
All’interno di questo primo episodio stagionale troverete il ripescaggio degli indimenticabili The God Machine, gli spunti hardcore e gli spasmi di improvvisazione degli Hoover, l’hardcore sincopato dei Saccharine Trust e il blues anfetaminico dei Chrome Cranks. Faremo un piccolo salto nel “nuovo” post-rock britannico con due delle formazioni più interessanti come Squid e Black Country, New Road per poi riproporre i sottovalutati The Housemartins. Ci saranno anche alcune novità: l’americana classica di Jason Isbell & The 400 Unit, l’esordio solista di Grian Chatten (Fontaines DC) e le meraviglie dell’ultimo lavoro della Fire! Orchestra, ma ci sarà spazio anche per un tuffo nel passato in compagnia di Country Joe & The Fish e The Band per onorare la vita e la carriera di Robbie Robertson. Il finale sarà dedicato alla scrittura straordinaria di Leonard Cohen e alla celebrazione del 40° anniversario dell’uscita di Swordfishtrombones di Tom Waits. Il tutto, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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La seducente e scura epicità dei The God Machine rimarrà una pagina meravigliosa e per certi versi irripetibile della storia del rock. La band era composta da Robin Proper-Sheppard (chitarra/voce), Jimmy Fernandez (basso) e Ronald Austin (batteria). Nonostante fossero tutti e tre di San Diego, si trasferirono a Londra dove iniziarono a calpestare i palcoscenici della capitale britannica. La loro visione musicale era potente e scura, sacra e tragica, un crocevia tra post-punk, psichedelia e rock duro. Scenes From The Second Storey è il disco di esordio, pubblicato nel 1993, che mette in chiaro quanto il trio riesca ad essere evocativo e originale nella sua spinta apocalittica. “Dream Machine” è la perfetta apertura di un album ipnotico e ricco di tensioni.
Il secondo One Last Laugh In A Place of Dying ne conferma e ne consolida il talento e la bontà delle soluzioni sonore ma allo stesso tempo sarà purtroppo l’epitaffio sonoro di uno dei gruppi più originali degli anni ’90 visto che subito dopo le registrazioni del disco un aneurisma cerebrale si porta via il bassista Jimmy Fernandez decretando di fatto la fine della band. Un colpo durissimo soprattutto per l’amico e compagno di avventure Robin Proper-Sheppard. La desolazione e la tristezza per la perdita dell’amico verrà in qualche modo messa in musica nel progetto Sophia, un moniker dove poter nascondere la passione del cantante-chitarrista per la tradizione indie-folk e la malinconia di un passato perduto. Incredibile pensare che a distanza di anni gli album dei God Machine ancora non siano stati ristampati costringendo chi li vuole riscoprire ad effettuare veri e propri salti mortali per reperirli.
L’integrità e la coerenza artistica di Ian MacKaye lo hanno portato a creare, insieme al sodale Jeff Nelson, l’etichetta Dischord Records nel 1980 per pubblicare prima gli album dei Minor Threat, poi dei Fugazi. Una parabola commerciale ed estetica di enorme importanza per aver adottato l’etica del “do it yourself”, producendo tutti gli album e vendendoli a prezzi scontati senza finanziamenti da parte di grandi distributori. Soprattutto all’inizio, l’etichetta voleva anche promuovere la scena post-hardcore di Washington D.C. Tra le band più sperimentali e flessibili messe sotto contratto dall’etichetta, visto che inseriva elementi jazz e dub e non si limitava a una posizione aggressiva, c’erano sicuramente gli Hoover.
Formati nel 1992, il quartetto vedeva il bassista cantante e trombettista Fred Erskine e il chitarrista-cantante Joseph McRedmont (allora anche parte dei Crownhate Ruin) fare comunella con il batterista Christopher Farrall e l’altro chitarrista (e saltuariamente anche lui alla voce) Alexander Dunham. Tre voci ad alternarsi, come il saliscendi di soluzioni adrenaliniche e momenti di pausa. La tromba di Erskine che troverà il suo spazio nella futura band del bassista, una pietra angolare del post-rock americano chiamata June Of 44. L’unico album licenziato dal quartetto per la Dischord si intitola The Lurid Traversal Of Route 7 ed esce nel 1994. Un capolavoro “minore” se vogliamo chiamarlo così, ma estremamente intenso e ricco di soluzioni come dimostra la splendida “Letter” inserita in scaletta. Gli Hoover si sono sciolti nel 1994, ma si sono riformati due volte: una prima volta nel 1997 per registrare un mini-album e una seconda nel 2004 per una serie di date negli Stati Uniti e in Europa.
Ci trasferiamo in California, per andare a trovare un vero e proprio gruppo di culto, tra i nomi più importanti del post-punk americano. Siamo a Wilmington nell’estate del 1979, teatro dell’incontro tra i due chitarristi Joe Baiza e Jack Brewer. Baiza, pur di suonare con il suo nuovo amico con la sua band, gli Obstacles, imbracciò il basso, ma la sua direzione ostinata verso il punk rock provocò lo scioglimento del gruppo e la nascita di una nuova entità chiamata Saccharine Trust. I due, con Luis Maldonado al basso e Richie Wilder alla batteria, salirono per la prima volta sul palco come supporto ai Minutemen. La sezione ritmica cambierà spesso e volentieri durante la loro carriera e Brewer si dedicherà solo alla parte vocale lasciando la sei corde in mano al talento cristallino di Baiza.
Il loro EP di esordio, Paganicons, viene pubblicato nel 1981 da un’etichetta importante come la SST Records e vede Rob Holzman alla batteria e Earl Liberty (vero nome Mark Vidal) al basso. Le otto brevi tracce mostrano un suono epilettico e la loro propensione creativa verso il jazz e l’ironia li renderà unici, come dimostra l’apertura di “I Have…”.. La formazione della band ha continuato a cambiare nel corso degli anni e si è sciolta negli anni ’90, prima della reunion nel 1996. La formazione riformata composta da Baiza, Brewer, Brian Christopherson alla batteria e Chris Stein al basso, ed è considerata da Baiza la loro migliore. Alla fine del 2018, Stein è morto dopo una battaglia di due anni contro il cancro. Nei suoi diari, il chitarrista dei Nirvana Kurt Cobain ha inserito proprio Paganicons tra i suoi 50 album preferiti e Jim O’Rourke ha sempre considerato la band come la più originale ed interessante della scena punk californiana.
La carriera anfetaminica dei The Chrome Cranks parte nel 1988 a Cincinnati, Ohio, ma trova una dimensione stabile quattro anni più tardi grazie all’unione tra il cantante-chitarrista Peter Aaron, il chitarrista William Gilmore Weber III, il batterista Bob Bert, e il bassista Jerry Teel. L’ossessione di partenza della band, è quella di Peter Aaron per la figura di Jeffrey Lee Pierce, leader dei The Gun Club. L’immaginario di disperazione e dannazione si incrocia con l’anima punk creando uno sconquasso primitivo e tribale che incrocia punk, garage e blues con il noise rock. Dopo tre splendidi album e un live, la band arriva al capolinea nel 1997. Sembrava una storia chiusa, ma nel 2007 la Atavistic Records ha pubblicato Diabolical Boogie, una compilation preparata con materiale raro, dal vivo e inedito che ha suscitato un nuovo interesse per i newyorkesi.
Dopo una serie di apprezzati concerti di reunion a New York nel maggio 2009, il gruppo ha suonato al festival Nuits Sonore di Lione, in Francia. Il successo degli ulteriori impegni newyorkesi ha convinto il gruppo a realizzare nel 2012 un nuovo album in studio recensito come migliore di qualsiasi altro disco dei Chrome Cranks degli anni Novanta: Ain’t No Lies In Blood. Mai detto fu più azzeccato, buon sangue non mente, la band torna con un’energia inaspettata a sferrare i suoi colpi. Non ci credete? Ascoltate i demoni blues di “Star To Star” implorare una dannazione eterna.
Questa nuova ondata di post-punk proveniente dalla Gran Bretagna sta raccogliendo allo stesso tempo consensi e critiche. Ad onor del vero la stessa etichetta post-punk la trovo davvero fuori luogo, una sorta di calderone dove viene messo tutto ed il contrario di tutto. In ogni caso, tra le proposte meno convenzionali associate a questa etichetta, tre gruppi sembrano essere sotto l’occhio del ciclone per la loro proposta complessa e strutturata: Black Midi, Black Country New Road e Squid. Se per i primi la forma e la tecnica sembrano aver (purtroppo) sovrastato la parte emozionale, per Black Country, New Road e soprattutto Squid le cose sembrano essere diverse. Il quintetto capitanato dal batterista-cantante Ollie Judge nasce a Brighton nel 2017 ed il loro suono prende forma dall’amore per gruppi non certo convenzionali come This Heat, Talking Heads e Wire. Dopo alcuni singoli ed un EP usciti per la piccola etichetta Speedy Wunderground, è la Warp ad interessarsi a loro e a metterli sotto contratto.
Dopo l’attesissimo esordio Bright Green Field, uscito nel 2021 che abbiamo passato più volte dalle nostre parti, ecco arrivare tre mesi fa l’atteso seguito intitolato O Monolith. Il gruppo non si è adagiato sugli allori e non cerca facili consensi, il nuovo album presenta diverse sfaccettature stilistiche anche rispetto al già ottimo esordio. Pur mantenendo la sua imprevedibilità, il quintetto di Brighton non ha messo affatto da parte il loro lato più emozionale, anzi, lo ha in qualche modo evidenziato grazie a suggestioni più melodiche e folk. “Green Light” mostra il loro lato math-rock, ma tutto il lavoro nella sua interezza è (di nuovo) convincente per la maestria dimostrata nel conciliare la sperimentazione con una più semplice fruizione, confermando gli Squid come gruppo tra i più importanti ed interessanti della nuova generazione.
Come detto in precedenza parlando degli Squid, ci sono altri gruppi raggruppati in un calderone la cui definizione (post-punk) può essere davvero fuorviante. Tra le band più interessanti ci sono sicuramente i Black Country, New Road, gruppo londinese formato originariamente da Isaac Wood (voce e chitarra), Georgia Ellery (violino), Lewis Evans (flauto, sax e voce), Tyler Hyde (basso), May Kershaw (tastiere e voce), Charlie Wayne (batteria) e Luke Mark (chitarra). Dopo due singoli pubblicati nel 2019, l’interesse verso il collettivo britannico era esponenzialmente aumentato, portando un’altra etichetta non certo rock come la Ninja Tune a metterli sotto contratto. L’album For The First Time è uscito nel febbraio 2021, con due nuove tracce a completare le quattro già uscite nei due anni precedenti ma qui completamente ri-registrate.
“Athens, France” è uno dei brani usciti nel 2019, che mostra la bravura dei sette musicisti nel destreggiarsi tra post-rock e jazz (violino e sax sono importanti tanto quanto chitarra e basso), e nel maneggiare perfettamente la tensione in notevoli saliscendi emotivi. Quattro giorni prima dell’uscita del loro secondo album Ants From Up There, Wood ha lasciato la band, adducendo problemi di salute mentale. In ogni caso anche il secondo album ha avuto un grande successo di critica e commerciale, debuttando al #3 della UK Albums Chart comparendo in diverse liste di album di fine anno. Dopo la partenza di Wood, la band ha iniziato immediatamente a lavorare su nuovo materiale, con Hyde, Evans e Kershaw a dividersi le parti vocali principali. Georgia Ellery insieme a Taylor Skye ha dato vita anche al progetto Jockstrap.
Torniamo su binari più “classici” con un artista di grande talento che, prima con i Drive-By Truckers (dal 2001 al 2007), poi con un’ottima carriera solista ha dimostrato tutte le sue qualità compositive. Stiamo parlando di Jason Isbell, il country rocker nativo dell’Alabama che dal 2009 incide con il suo gruppo chiamato the 400 Unit, composto da Derry DeBorja (tastiere, già con i Son Volt), Jimbo Hart (basso), Chad Gamble (bateria) e Sadler Vaden (chitarra). Sempre a cavallo tra southern rock e country, Isbell è tornato da pochi mesi a pubblicare un disco di inediti dopo Georgia Blue di due anni fa, album dedicato alla vittoria di Biden alle presidenziali composto esclusivamente da cover di artisti nati o cresciuti in Georgia (tra cui R.E.M., Vic Chesnutt, Cat Power, Otis Redding e The Black Crowes).
Il nuovo album, nono album in studio registrato da Isbell e sesto accompagnato dai suoi 400 Unit si intitola Weathervanes ed è stato pubblicato il 9 giugno 2023 dalla Southeastern Records, la sua etichetta personale. Con questo lavoro Isbell conferma di essere una delle voci più forti e più vere del roots rock americano. Tra splendide ballate intimiste e brani più elettrici e tirati, l’artista dell’Alabama disegna quadretti impeccabili di umana quotidianità. Il crescendo della“Death Wish” inserita in scaletta affronta un argomento mai facile da affrontare con fermezza e sensibilità. L’ennesimo centro pieno di un grande artista.
Andiamo adesso ad occuparci di un gruppo che ha avuto una carriera breve ma intensa. Siamo a Hull, città portuale dell’Inghilterra orientale posizionata su un ampio estuario che sfocia nel Mare del Nord. Qui nel 1983, il cantante Paul David Heaton (che da quel momento in poi cambiò nome in P.D. Heaton) incontra il chitarrista Stan Cullimore. I due, dopo aver registrato un primo demo tape che li porta all’attenzione della loro futura etichetta discografica (la Go! Discs), decidono di ampliare la formazione reclutando l’ex chitarrista dei Gargoyles Ted Key al basso e Justin Patrick alla batteria, subito dopo sostituito da Chris Lang. Nel 1985 Key viene sostituito da Norman Cook (il futuro Fatboy Slim) e la band trova il suo assetto definitivo. Il nome, The Housemartins, viene da un’idea di Heaton, ispirato dal suo scrittore preferito, Peter Tinniswood.
Loro sono un gruppo che non fa nulla per apparire, ma proprio per questo risulta estremamente empatico sia per gli addetti ai lavoro che per il pubblico. Nessun look particolare e un’attitudine sociale apertamente contro la classe dirigente, spesso sorretta da uno spiccato senso dell’ironia. Il loro esordio sulla lunga distanza avviene nel 1986 con Hugh Whitaker dietro ai tamburi e si intitola London 0 Hull 4, metafora calcistica che vede la vittoria straripante della piccola città portuale contro la sede del potere britannico. “Troppe mani in poche tasche, mentre poche sono quelle sui cuori” cantano nell’avvolgente “Flag Day” inserita in scaletta. Si ritireranno dopo un solo altro (splendido) album. lasciando un vuoto enorme nel cuore di chi pensa che il pop possa essere arte, e non solo nel loro.
Ho parlato più volte su queste pagine dei Fontaines DC, difendendoli da alcuni attacchi (soprattutto social) tesi ad etichettare come “sopravvalutata” una delle band più interessanti degli ultimi anni. Gli irlandesi hanno mostrato un percorso di crescita importante, non adagiandosi mai sugli allori ma progredendo nell’evoluzione della loro musica. Valore aggiunto del quartetto irlandese sono sempre stati i testi, scritti dal cantante Grian Chatten, capace di proporre versi profondi ed attuali. A trenta miglia a nord di Dublino, su un lungomare spazzato dal vento, si trova un vecchio casinò, il tipo di posto che chiunque abbia familiarità con il fascino arrugginito delle città costiere riconoscerà.
Un locale ormai chiuso dove lo scricchiolio delle palle da biliardo e il tintinnio dei bicchieri nel lounge bar riverberavano con l’onnipresente suono metallico delle slot machines. In quel luogo Chatten ha iniziato a pensare ad alcune canzoni che voleva registrare proprio come le aveva immaginate, senza contaminazioni esterne. Da qui l’idea di un album solista. Chaos For The Fly è un disco che ci fa trovare un artista diverso da quello che siamo abituati a sentire. Una vocalità più matura e intimista, rimandi al folk della sua terra più centrati di quelli della band madre (“Fairlies”), divertenti aperture pop americane (“Bob’s Casino”) e brani intensi e malinconici come la splendida “I Am So Far” inserita in scaletta, impreziosita dall’armonica suonata dallo stesso Chatten e dai cori della sua partner nella vita Georgie Jesson.
Un anno incredibile il 1967, una sorta di punto di svolta nella storia della musica popolare. La realtà musicale di quei giorni, profondamente intrecciata a quello che era il tessuto sociale e politico dell’epoca, riuscì a far cadere le barriere stilistiche, geografiche, razziali, portando alla luce un modo nuovo di muoversi nel mondo dei suoni: una modalità curiosa, mutevole, vibrante. Talmente importante da farmi iniziare la storia della Rock ‘N’ Roll Time Machine proprio da quell’anno. utto questo e molto altro creano dei tasselli che si incastrano andando a formare un puzzle dalle notevoli varianti stilistiche e dalla qualità di produzione musicale senza precedenti. Negli States la rivoluzione del rock era già arrivata, ma il 1967 fa iniziare un periodo di grande scambio culturale che segnerà un’epoca.
Difficile tirar fuori una scaletta da tutto quel ben di Dio (Velvet Underground, Pink Floyd, Jefferson Airplane, Love, Doors, Byrds, Tim Buckley, Jimi Hendrix, Zappa, Beatles, Rolling Stones, The Who e chi più ne abbia più ne metta) e nei 23 brani che avevo scelto manca un altro tassello non meno importante. I Country Joe and the Fish sono stati un gruppo psichedelico formatosi a Berkeley, in California, nel 1965. Fondati da Country Joe McDonald (voce, chitarra acustica) e Barry “The Fish” Melton (chitarra solista, voce), sono stati tra le band più influenti della scena musicale di San Francisco durante la metà e la fine degli anni sessanta con testi che affrontavano in modo acuto temi importanti per la controcultura, come le proteste contro la guerra, l’amore libero e l’uso di droghe “ricreative”. Il loro esordio Electric Music For The Mind And Body è stato pubblicato nel maggio 1967 ed è stato uno dei primi album psichedelici a uscire da San Francisco. “Death Sound Blues” è uno dei brani cardine di un album che rappresenta appieno lo spirito psichedelico degli hippies dell’epoca. Un altro (ottimo) album uscito a novembre 1967, la partecipazione a Woodstock da “solista” con un gruppo rivoluzionato e una carriera, quella di Country Joe McDonald, che continua fino ai giorni nostri pur avendo perso la magia e l’elettricità di quegli anni irripetibili.
A proposito di anni ’60 e di gruppi meravigliosi. Non basta certo un piccolissimo articolo ed una sola canzone per comprendere la grandezza di un gruppo che si è voluto chiamare con il nome più semplice del mondo: The Band. Le origini del quintetto sono curiose e nascono dal trasferimento del cantante Ronnie Hawkins e dei suoi Hawks (di cui faceva parte il batterista e cantante Levon Helm) dall’Arkansas a Toronto, in Canada. A Toronto Hawkins prende nella sua band tutti i musicisti più in vista della scena: ecco arrivare alla sua corte Robbie Robertson alla chitarra solista e Rick Danko al basso seguiti a stretto giro di posta da Richard Manuel (voce, pianoforte e sax) e Garth Hudson (tastiere, organo, sassofono, fisarmonica e tromba). Alla fine dell’estate del 1965, Bob Dylan cercava una band di supporto per il suo primo tour “elettrico” negli Stati Uniti. Il cantante blues John Hammond Jr. consigliò a Dylan proprio gli Hawks.
I tour logoranti sfiancarono il gruppo che, complice un brutto incidente di moto avuto da Dylan, cominciò a ragionare non più da gruppo di supporto. Il risultato lo conoscete: i cinque, in una cantina di una casa vicino a Woodstock creano un’alchimia incredibile, niente droghe e psichedelia, ma un aggiornamento delle radici della musica americana ad un livello superiore di scrittura ed esecuzione. Già dal primo Music For Big Pink (1968) le mille anime del suono a stelle e strisce: country, folk, blues, gospel, rock, soul, r&b, si uniscono in un mix mai sentito prima. Il secondo, omonimo, The Band, uscito un anno dopo, conferma la grandezza enorme del quintetto. In onore di Robbie Robertson, che ci ha lasciati un mese fa, ho voluto riproporre la splendida apertura del secondo lavoro scritta proprio dalla penna ispirata del chitarrista: “Across The Great Divide”. Il Great Divide non è altro che la linea immaginaria che divide in due gli Stati Uniti, tra i fiumi che finiscono nell’ Atlantico e quelli che finiscono nel Pacifico. Un omaggio assolutamente doveroso.
Nel 1967 il canadese Leonard Cohen ha già 33 anni ma si è già affermato come poeta e scrittore pubblicando la sua prima raccolta di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, nel 1956 a soli 22 anni. Il suo debutto come cantautore, intitolato semplicemente Songs Of Leonard Cohen, è tanto tardivo quanto importante. L’album fa registrare una novità importante, rispetto a folksinger impegnati socialmente e politicamente come Dylan, lo sguardo di Cohen si rivolge all’individuo, ai suoi conflitti interiori. Una poetica introspettiva con riferimenti alla mitologia e ai temi biblici che non gli farà trovare all’epoca in riscontro del grande pubblico, ma che verrà rivalutata eccome con il tempo. Dopo aver effettuato numerose tournée tra il 2008 e il 2013, l’artista canadese ha iniziato a soffrire di fratture multiple della colonna vertebrale e di altri problemi fisici che lo hanno portato a lasciarci, in silenzio, il 7 novembre del 2016.
Cohen è stato semplicemente uno degli autori più influenti della storia della musica, e fortunatamente, 17 giorni prima del decesso, aveva fatto in tempo a pubblicare un testamento sonoro importante intitolato You Want It Darker. A causa dei problemi di mobilità, Cohen aveva dovuto registrare le parti vocali nel salotto della sua casa di Mid-Wilshire, a Los Angeles, per poi inviarle via e-mail ai suoi collaboratori musicali. A riascoltarlo adesso come sembra profetico il verso “I’m ready, my Lord” inserito nella scura title track. Pochi, pochissimi, hanno avuto la sua capacità di scrittura e la sua solidità melodica, nel raccontare storie dure e vere di disagio sociale, amore, misticismo, sesso e religione. Ci mancherà, e molto, la sua voce profonda, la sua eleganza, la sua magia. Nel 2019 è stato pubblicato l’album postumo Thanks For The Dance, la cui gestazione e pubblicazione è stata voluta e condotta dal figlio Adam Cohen, che ha raccolto bozzetti e poemi composti durante la produzione di You Want It Darker, e li ha arricchiti con l’aiuto di una lista notevole di collaborazioni.
Faccio di nuovo mea culpa. Un artista enorme di cui mi ricordo troppo poco spesso nella compilazione dei miei podcast. Che dire su Tom Waits che non sia già stato detto o sviscerato in tanti anni? Con i suoi alti (molti) e i suoi bassi (pochissimi), l’artista di Pomona non ha mai fatto un album che non sia onesto, diretto e passionale. Stavolta però non potevo farmi sfuggire l’occasione per celebrare il quarantennale di uno degli album più belli e significativi del buon Tom. Proprio il 1 settembre 1983 usciva Swordfishtrombones, disco che segna un importante distacco dai sette lavori precedenti e non solo perché è il primo album che Waits produce personalmente, ma soprattutto perché presenta un’importante ed evidente cesura stilistica.
Stilisticamente diverso dai suoi album precedenti, Swordfishtrombones si allontana dal convenzionale songwriting basato sul pianoforte per passare a una strumentazione insolita e a un approccio più astratto e sperimentale. Gli arrangiamenti bislacchi, le storie prese (pare) a caso da ritagli di giornali, canzoni lunghe e corte, strumentali ubriachi che si alternano in un caos organizzato di divertita percussività. Anche qui è difficile pescare nel mazzo una carta, visto che quasi tutte sembrano vincenti. Alla fine la scelta è caduta sulla barcollante “Shore Leave”, dall’andamento percussivo mediorientale grazie alle percussioni di Victor Feldman e al trombone di Randy Aldcroft. Un disco che segna un importante spartiacque nella carriera di Tom Waits e lo consegna definitivamente all’immortalità.
Chi segue i miei podcast sa bene che i Fire!, trio avant-jazz che vede dietro i tamburi Andreas Werliin, metà dei Wildbirds & Peacedrums, e gli stessi W&P, appaiono abbastanza regolarmente nelle mie scalette per il loro approccio in perfetto equilibrio tra jazz, psichedelia, attitudine garage, e primitivismo folk-blues spogliato da ogni orpello. Nel corso del 2013 i Fire! (Mats Gustafsson: sassofoni, Fender Rhodes e elettronica, Johan Berthling: basso e Andreas Werliin: batteria) sono riusciti a riunire altri 25 musicisti della scena improv-alt-jazz-rock svedese (tra cui la moglie di Werliin e metà dei W&P Mariam Wallentin) allargando l’ensemble e dando vita, sotto il nome di Fire! Orchestra, ad un baccanale orgiastico dove suggestioni di jazz astrale (con Sun Ra come nume tutelare ed esplicito riferimento), kraut-rock, psichedelia, improvvisazioni, accelerazioni soul riescono ad incastrarsi perfettamente.
Non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di chiudere il podcast con loro, che pochi mesi fa hanno pubblicato un nuovo, incredibile lavoro a quattro anni dal precedente Arrival. Nelle quasi due ore di registrazione del nuovo album della Fire! Orchestra intitolato Echoes convivono, in maniera incredibile, jazz, rock, folk, musica elettronica, classica e contemporanea, con un uso di archi, fiati ed elettronica assolutamente sublime. Alla produzione del nuovo album della band di Mats Gustafson ha partecipato anche Jim O’Rourke, cui è stata data assoluta libertà in sede di missaggio. Il brano proposto per finire nella maniera migliore possibile questo podcast è “Echoes: To Gather It All. Once.”, una sorta di lungo e lento soul-jazz condotto con maestria dalla voce di Mariam Wallentin (che si alterna alla voce con David Sandström e con il sassofonista Joe McPhee), sodale sul palco e nella vita con il batterista Andreas Werliin. Il collettivo scandinavo (stavolta addirittura composto da 43 elementi!) si conferma come assoluto punto di riferimento della scena musicale odierna. Sarà quasi impossibile estromettere Echoes dalle classifiche di fine anno.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Nel prossimo episodio, ispirato da alcune novità succose, faremo un piccolo giro nell’universo del folk psichedelico. Il nuovo album di P.G. Six (dopo 12 anni di silenzio) e di Sally Anne Morgan mi hanno fatto voglia di ripescare i loro due ex gruppi, Metal Mountains e House And Land con due dischi di grande intensità. In ambito folk ritroveremo anche le stramberie di Richard Dawson e la classe di Ryley Walker. Ci sarà anche il nuovo album dei meravigliosi The Clientele, e il trascinante noise rock psichedelico degli Upper Wilds. Parleremo anche del ritorno di Andrya Ambro alla guida del progetto Gold Dime, dell’album solista di Buck Meek dei Big Thief e riascolteremo le suggestioni sonore dei King Hannah. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web. Se volete darmi suggerimenti e proposte, scrivetemi senza problemi all’indirizzo e-mail stefano@stefanosantoni14.it.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. THE GOD MACHINE: Dream Machine da ‘Scenes From The Second Storey’ (1993 – Fiction Records)
02. HOOVER: Letter da ‘The Lurid Traversal Of Route 7’ (1994 – Dischord Records)
03. SACCHARINE TRUST: I Have … da ‘Paganicons’ (1981 – SST Records)
04. THE CHROME CRANKS: Star To Star da ‘Ain’t No Lies In Blood’ (2012 – Bang! Records)
05. SQUID: Green Light da ‘O Monolith’ (2023 – Warp Records)
06. BLACK COUNTRY, NEW ROAD: Athens, France da ‘For The First Time’ (2021 – Ninja Tune)
07. JASON ISBELL & THE 400 UNIT: Death Wish da ‘Weathervanes’ (2023 – Southeastern Records)
08. THE HOUSEMARTINS: Flag Day da ‘London 0 Hull 4’ (1986 – Go! Discs)
09. GRIAN CHATTEN: I Am So Far da ‘Chaos For The Fly’ (2023 – Partisan Records)
10. COUNTRY JOE & THE FISH: Death Sound Blues da ‘Electric Music For The Mind And Body’ (1967 – Vanguard)
11. THE BAND: Across The Great Divide da ‘The Band’ (1969 – Capitol Records)
12. LEONARD COHEN: You Want It Darker da ‘You Want It Darker’ (2016 – Columbia)
13. TOM WAITS: Shore Leave da ‘Swordfishtrombones’ (1983 – Island Records)
14. FIRE! ORCHESTRA: ECHOES: To Gather It All. Once. da ‘Echoes’ (2023 – Rune Grammofon)
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SEASON 18 EPISODE 01: “Green Light” https://t.co/v9ZSKrf2U5 il mio primo #podcast per la 18° Stagione di @RadiorockTO
— SoundsAndGrooves (@SoundsGrooves) September 21, 2023