Le avventure in musica di Sounds & Grooves proseguono nella 17° Stagione di RadioRock.TO The Original
Nel quattordicesimo episodio stagionale di Sounds & Grooves troverete un piccolo excursus sul cantautorato al femminile, alcune novità e molte meraviglie assortite
Torna l’appuntamento quindicinale di Sounds & Grooves che per il 17° anno consecutivo impreziosisce (mi piace pensarlo) lo straordinario palinsesto di www.radiorock.to. A pensarci è incredibile che sia passato già così tanto tempo da quando abbiamo iniziato questa folle ma fantastica avventura. Come (credo) già sapete, la nostra podradio è nata per dare un segnale di continuità con il passato, con quella meraviglia che Franz Andreani, Marco Artico, Flavia Cardinali, Massimo Di Roma, Michele Luches, Aldo Semenuk, Giampiero Crisanti, Gianpaolo Castaldo avevano creato e a cui, nel mio piccolo, ho provato a dare un contributo dal 1991 al 2000. Sappiamo tutti benissimo che la Radio Rock in FM come la intendevamo noi è sparita da almeno due decenni, ma in tutti questi anni di podcast sul web abbiamo cercato di tenere accesa quella fiammella per poi tentare di moltiplicarla, facendola diventare un faro di emozioni e qualità musicale. Perché la passione e la voglia di fare radio, la voglia di ascoltare e di condividere la musica di qualità, nonostante tutto, non ci è mai passata. Questa creatura dopo più di 3 lustri continua orgogliosamente a remare controcorrente, cercando quella libertà in musica che nell’etere è ormai diventata una mosca bianca, ed esprimendo con forza la passione per la condivisione, per la ricerca, per l’approfondimento. Non dobbiamo aderire ad una cieca linea editoriale che ormai spinge esclusivamente il pulsante play dei servizi di streaming, ma ci lasciamo guidare semplicemente dal nostro cuore e dalla nostra passione. Fulvio Savagnone, Marco Artico, Giampiero Crisanti, Franz Andreani, Flavia Cardinali, Francesco Cauli, Ivan Di Maro, Massimo Santori aka Moonchild, Maurizio Nagni ed io proviamo ogni giorno a coinvolgervi con i nostri podcast regolari e con le rubriche tematiche di approfondimento, sperando di farvi sentire sempre di più parte di questa fantastica avventura.
Il quattordicesimo viaggio inizia tributando gli onori al quarantennale dell’esordio dei R.E.M., prosegue aprendo una finestra sull’americana anni ‘90 con i Giant Sand, per poi trovare la meraviglia nascosta di due outsider come Alvarius B e Monks of Doom. A seguire c’è la psichedelia ottundente dei WHITE HILLS, il trasformismo pop dei Field Music, una parentesi sul cantautorato al femminile con Emma Tricca, Meg Baird e Kate Stables aka This Is The Kit e le soluzioni dolenti e affascinanti di Daniel Blumberg. Il finale è appannaggio delle suggestioni trip-hop di Nosaj Thing, le meraviglie indimenticabili dei Massive Attack, il giusto tributo al maestro Ryuichi Sakamoto 坂本龍一 e i paesaggi onirici degli Hood. Il tutto, come da ben 16 anni a questa parte, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
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Un delle tendenze attuali che mi lascia più sconcertato è quello di festeggiare l’anniversario di uscita dell’album anche se non si tratta di una cifra importante o di una cifra tonda. Tra le mille inutili celebrazioni, fa impressione il quarantennale dell’esordio di uno dei gruppi rock più importanti dell’ultimo secolo. Cosa si può dire dei R.E.M. che non sia già stato detto? Una carriera trentennale, quindici album in studio, tutti nessuno escluso (anche gli ultimi due nella fase di minore ispirazione) di grande coerenza ed onestà artistica. Michael Stipe e compagni hanno portato con classe, sensibilità ed enorme capacità di scrittura, l’indie rock nel mainstream, vendendo quasi 90 milioni di dischi.
Il 12 Aprile del 1983 viene pubblicato Murmur, album di debutto del quartetto statunitense. Le registrazioni non furono semplici, visto che la band ricusò presto il produttore designato Stephen Hague che voleva “donare” alla band un’aura di perfezione tecnica e aggiungere tastiere senza l’approvazione del gruppo. Dopo questi contrattempi i R.E.M. entrano nei Reflection Studios di Charlotte, North Carolina, per iniziare le sessioni di registrazione con i “vecchi” produttori Mitch Easter e Don Dixon. Dopo la cattiva esperienza con Hague, il gruppo registrò l’album rifiutando di incorporare cliché della musica rock come assoli di chitarra o l’uso di sintetizzatori. Berry, in particolare, si oppose a suggerimenti musicali “strani”, insistendo che la sua batteria fosse registrata in una cabina per batteristi, una pratica antiquata all’epoca. Il risultato è un lavoro senza tempo, come dimostra il secondo singolo estratto “Talk About The Passion”.
Nello scorso episodio abbiamo parlato di Howe Gelb accennando appena alla sua creatura principale. Nati a Tucson, Arizona a metà degli anni ’80, i Giant Sand nati nel periodo del Paisley Underground, si muovevano in un territorio sonoro sempre più rivolto verso il country folk. Nel corso dei quasi 40 anni di storia della sigla, Howe Gelb ha riunito intorno a se moltissimi musicisti fino alla line-up attuale che vede Gelb insieme a musicisti danesi. La sua visione permeata dalla tipica visione psichedelica, ha via via acquistato diversi altri elementi tra cui il country e la musica di frontiera.
Nel 1996 la sezione ritmica del gruppo formata da Joey Burns e John Convertino, ha voluto esplorare soprattutto quest’ultima parte formando i Calexico. Swerve, il sesto album in studio, esce nel 1990 e vede una formazione allargata con l’inserimento di Chris Cacavas alle tastiere (ex Green on Red) e Steve Wynn dei Dream Syndicate, ad aumentare la carica di elettricità. Il disco suona molto diverso dal precedente Long Stem Rant, più intimista, acustico e dall’attitudine lo-fi. “Can’t Find Love”, con i cori di una splendida Juliana Hatfield è manifesto di uno dei più riusciti album di una band che si è saputa ricreare negli anni.
Alan Bishop è un contrabbassista, chitarrista e sassofonista americano, grande appassionato di tradizioni mediorientali e fondatore di una meravigliosa ed indimenticabile band chiamata Sun City Girls. La morte del percussionista Charles Gocher aveva interrotto bruscamente la strada del gruppo ma non la voglia di sperimentare e di fare musica di Alan Bishop e di suo fratello Richard. Due anni fa insieme all’egiziano Maurice Louca ed al canadese Sam Shalabi ha dato vita ai Dwarfs of East Agouza, un progetto estremamente interessante che andava a contaminare gli strumenti e i suoni della tradizione araba con l’elettronica europea. Dietro al moniker di Alvarius B. i fratelli Bishop hanno registrato in Egitto insieme a molti collaboratori locali e non, 35 nuove canzoni spalmate su tre singoli LP o un doppio CD.
With A Beaker In The Burner And An Otter In The Oven è una meraviglia assoluta, ad ascoltarla ripetutamente non riesco a comprendere come sia sfuggita alla mia Playlist 2017 e come non sia stata recensita da alcuna delle più importanti webzine italiane. Tanti anni di tradizioni americane rivisitate al meglio, sensibilità mediorientale, alcuni maestri di musica italiana (Morricone e Piccioni) citati esplicitamente, tutto contribuisce a fare di questo album una piccola-grande meraviglia. Elettrico, acustico, melodia e qualche dissonanza, tutto si miscela perfettamente, un disco suonato con passione e perizia. Difficile trovare un brano che possa rappresentare un disco così variegato, alla fine la scelta è caduta sulla classica “Zion The Rocket Ship”.
La scena psichedelica di New York ha dato i natali ad un duo chiamato White Hills i cui membri fondatori (ed unici sempre presenti) sono Dave W. (chitarra e voce) e Ego Sensation (basso e voce). Sono senza dubbio una delle band più prolifiche della loro generazione, con oltre 40 pubblicazioni tra cui diversi split con band come The Heads o Gnod. La loro musica è capace di raggiungere un equilibrio avvincente tra pesantezza ed etereità combinando elementi di kraut rock, post-punk, art rock, goth, rock psichedelico, metal, stoner rock, ambient e space rock. Una formula sonora che i due hanno percorso in ogni angolo sperduto, andando poi anche a ricercare nuovi suoni esplorando in parte anche l’elettronica ed il mondo infinito dei field recordings.
Il decimo album in studio del duo (sesto per la Thrill Jockey) si intitola Stop Mute Defeat ed è uscito nel 2017. Per la produzione i due si fanno affiancare da Martin Bisi (Brian Eno, Sonic Youth) in fase di missaggio, con il risultato che il suono sembra allontanarsi leggermente dal quel garage/space rock con il quale si sono fatti conoscere nel corso degli anni per approfondire maggiormente territori più elettronici e new wave, senza tuttavia perdere la forte propulsione psichedelica che li contraddistingue da sempre. La cupa e ottundente “Sugar Hill” inserita in scaletta va proprio in questa direzione, mostrando una diversa sfaccettatura di uno dei gruppi più interessanti degli ultimi anni. la loro ultima uscita è l’ottimo The Revenge Of Heads On Fire, pubblicato dalla loro neonata etichetta personale chiamata proprio Heads On Fire.
Che bello riscoprire dischi dimenticati, quelli che hai ascoltato molto tempo fa, con cui eri andato anche in fissa, ma che poi da qualche anno erano rimasti a prendere polvere in attesa di recupero. I Monks Of Doom erano nati come progetto alternativo e parallelo di uno dei gruppi più interessanti degli anni ’80, quei Camper Van Beethoven che avevano saputo mirabilmente coniugare il post punk con il folk, il tutto condito da uno straordinario senso ironico. Nel 1986 i chitarristi Greg Lisher e Chris Molla, il bassista (e nel caso dei Monks of Doom, la voce principale) Victor Krummenacher e il batterista Chris Pedersen fondarono il gruppo come progetto collaterale quasi casuale per esplorare alcuni dei loro interessi che non rientravano nel sound dei Camper Van Beethoven.
Molla lasciò entrambi i gruppi poco dopo e il chitarrista David Immerglück, allora con il gruppo The Ophelias, lo sostituì nei Monks Of Doom e, qualche anno più tardi, anche nei Camper Van Beethoven poco prima del loro scioglimento. Dopo due album nati per puro divertimento, lo scioglimento del gruppo principale fa sì che il progetto Monks Of Doom diventi una priorità. Ecco quindi che nel 1991 esce Meridian, disco più organizzato dove tra strumentali e echi del passato, il gruppo riesce a far quadrare il cerchio tra brani melodici come “The Better Angels Of Our Nature” e l’incedere nervoso della “Turn It On Itself” inserita in scaletta. La band si è riunita nel 2003 pubblicando cinque anni fa anche un nuovo album in studio intitolato The Brontë Pin. Dal 1999 David Immerglück fa parte anche dei Counting Crows.
Quando ero piccolo amavo vedere una delle prime trasmissioni dedicate ai cartoni animati. Si chiamava “Gulp! Fumetti in TV“, ed il mio personaggio preferito era un buffo investigatore privato che si chiamava Nick Carter. Insieme ai fidi Patsy e Ten, Carter era sempre capace di smascherare le malefatte del suo acerrimo nemico: il maestro del travestimento Stanislao Moulinski. I fratelli Peter e David Brewer da Sunderland, attivi da un decennio sotto il nome di Field Music, mi ricordano un po’ il simpatico Moulinsky nel loro essere ironicamente abili trasformisti. ma con una differenza sostanziale, perché i due non fanno nulla per nascondere i loro travestimenti, rendendoci liberi di scoprirli a mano a mano che procediamo nell’ascolto delle loro composizioni.
Già dal primo album autointitolato uscito nel 2005, hanno saputo pescare dalla new wave e dall’art pop degli anni ’70, mischiandolo con un certo tipo di post-punk e con le armonie vocali della Motown. Le strutture dei Roxy Music, dei 10cc, degli XTC (tanto per citare altri espliciti riferimenti), sono la base di partenza su cui i due amano costruire il loro wall of sound che ha la grande prerogativa di suonare estremamente lineare e semplice anche quando le sovrastrutture melodiche e di tessitura vocale potrebbero far crollare il tutto. E se i primi due album, con diverse modalità, hanno permesso ai due di ottimizzare la loro tecnica di fermare lo scorrere del tempo, scattando delle istantanee qua e là, per poi riproporle vestite a nuovo, nel 2010 con Field Music (Measure) i fratelli britannici sono riusciti a perfezionare un suono assolutamente distintivo nonostante i molteplici ed evidenti modelli di riferimento come dimostra la splendida “Lights Up” inserita in scaletta..
Inauguriamo un trittico tutto al femminile partendo da una delle voci più belle ed incontaminate del panorama musicale odierno. Una voce malinconica, inebriante e ipnotizzante quella di Meg Baird, che molti (spero) ricordano come membro del gruppo psych-folk Espers. Ma la californiana ha anche collaborato con successo con l’arpista Mary Lattimore ed è batterista (!) e cantante nell’interessante progetto Heron Oblivion. Come solista, la Baird ha recentemente interrotto un silenzio che durava da ben otto anni pubblicando un nuovo album intitolato Furling.
Il disco, pubblicato dalla Drag City, mostra l’unica superstite del progetto Espers (Greg Weeks ormai è un professore d’inglese a tempo pieno mentre di Brooke Sietinson si sono perse le tracce) cambiare leggermente registro, mettendo il pianoforte al centro delle sue composizioni. La Baird espande la sua tavolozza e distribuisce le sue molteplici sfaccettature in uno dei suoi lavori più ricchi, co-producendo e registrando l’album con Charlie Saufley, suo partner e compagno di band negli Heron Oblivion. Il folk si tinge ora di psichedelia, ora di jazz, ammaliando e convincendo grazie ad un suono più corposo. “Twelve Saints” è solo una delle meraviglie di cui è costellato uno degli album più convincenti di questo primo scorcio di 2023.
Anima folk sensibile e sofisticata, Kate Stables con il suo progetto This Is The Kit si è saputa ritagliare uno spazio importante e i favori di altri artisti come Sharon Van Etten, John Parish o Aaron Dessner dei National. Proprio poco tempo dopo aver partecipato all’album dei National I Am Easy To Find, la Stables insieme ai suoi collaboratori (Neil Smith alla chitarra, Rozi Leyden al basso, Jamie Whitby-Coles alla batteria e Jesse D Vernon a chitarra e piano) hanno testato le nuove tracce in un casolare della campagna Gallese per poi trasferirsi a marzo 2020 per le registrazioni nei Real World Studios di Peter Gabriel nel Wiltshire insieme al produttore Josh Kaufman (Bonny Light Horseman).
Il risultato è splendido. Off Off On, il quinto album della band, mostra una crescita compositiva notevole. Gli arrangiamenti si fanno più corposi grazie al banjo della Stables e ad una misurata sezione fiati e il folk degli inizi si trasfigura in un raffinato microcosmo dove ci sono momenti ariosi e intrecci complessi, cambi di passo e brani sofisticati. Un album di magnetica bellezza dove è stato particolarmente difficile scegliere un brano. Alla fine ho optato per l’ispirato intreccio che rende “Started Again” assolutamente irresistibile. Il disco è l’ennesima conferma del cantautorato cristallino e ipnotico della Stables che tornerà tra poco visto che il nuovo Careful Of Your Keepers, prodotto da Gruff Rhys (Super Furry Animals), uscirà il 9 giugno 2023 per la Rough Trade Records.
Chiudiamo questa piccola parentesi al femminile con Emma Tricca, splendida cantautrice di origine italiana ma residente da tempo a Londra. Il nuovo contratto con un’etichetta importante come la Bella Union ha portato una nuova consapevolezza e l’ingresso in una dimensione finalmente internazionale. Il risultato è Aspirin Sun, un album pubblicato dopo cinque anni di silenzio che vede tra i solchi l’elaborazione di un lutto importante (la scomparsa del padre) avvenuta trascorrendo alcuni mesi a New York durante l’estate del 2019 e ricordando quando, con una piccola Fiat bianca, lei ed il papà sfrecciavano attraverso le Alpi e in passaggi bui, in cui i fasci di luce sembravano sfavillare davanti a loro in lontananza. Una sorta di nuovo orizzonte psichedelico che poteva essere pienamente realizzato solo dagli stessi musicisti con cui aveva collaborato per la sua uscita del 2018, St. Peter: Steve Shelley dei Sonic Youth, il chitarrista dei Dream Syndicate Jason Victor e il bassista Pete Galub.
Il disco mostra un dolente folk psichedelico ammantato da una profonda maturità compositiva. Un nuovo universo scintillante in cui spicca “Christodora House“. La canzone è un omaggio proprio al padre scomparso, ed è ispirata da un edificio storico dell’East Village di New York che è inestricabilmente legato alla sua discendenza paterna. Il prozio della Tricca, un artista di New York, aveva dipinto l’edificio di 16 piani negli anni Trenta. Quando in quell’estate del 2019 ci si è ritrovata davanti, è rimasta colpita da questa insolita orbita presa dalla sua vita, a distanza di tanti anni, nello stesso punto del suo predecessore, realizzando profondamente di aver chiuso il suo personale cerchio.
Daniel Blumberg è un musicista londinese, tanto irrequieto da nascondersi dietro una sfilza di nomi come Cajun Dance, Hebronix, Oupa, o Heb-Hex. Non contento ha anche creato una band estremamente interessante chiamata Yuck, con cui ha pubblicato 3 album tra il 2011 ed il 2016. Durante lo scorso anno, Blumberg insieme a Ute Kanngiesser (violoncello), Tom Wheatley (contrabbasso) e Billy Steiger (violino), ha dato vita ad una residency molto interessante presso un locale famoso per le sue jam session di improvvisazione jazz, il Cafe OTO di Londra. Insieme ai suoi fidati musicisti, Blumberg è andato in Galles a registrare il suo album di esordio come solista. Minus è un album crudo, dolente, a tratti straziante, sincero, suonato con passione.
Solo in una traccia (i 12 minuti di “Madder”), i musicisti si lasciano andare ad un’improvvisazione free-form, nelle altre 6 canzoni è la poetica, il romanticismo a volte doloroso, la fragilità emotiva ad avere la meglio, come in “Minus”. Un disco che vede la presenza di Jim White, batterista dei Dirty Three, e in certi frangenti è come se la musica dolente del trio australiano abbia trovato una voce in grado di esprimere quelle atmosfere malinconiche. Un album entrato in moltissime playlist di fine anno, un disco dell’anima impreziosito dalle illustrazioni create dallo stesso songwriter che tornerà tra poco (il 26 maggio) con un nuovo album intitolato Gut.
Un disco che avevo perso nel 2022 ma che ho provveduto a recuperare è quello del ritorno, dopo cinque anni di assenza, di Jason Chung, meglio conosciuto come Nosaj Thing. Artista, produttore e DJ statunitense di origine coreana, Chung ha prodotto brani per Kendrick Lamar, Chance the Rapper, Kid Cudi, Julianna Barwick, ed è il fondatore della Timetable Records. Il produttore residente a Los Angeles, dopo l’EP di esordio View/Octopus datato 2006, ha esordito sulla lunga distanza tre anni più tardi con l’ottimo Drift, che lo vedeva perfettamente a suo agio nel mescolare le sue radici hip hop con un’elettronica glitch e malinconica.
Lo scorso anno ha pubblicato un ottimo album intitolato Continua, dove Nosaj Thing ha virato leggermente verso la forma canzone ricordando le ritmiche trip-hop degli anni ’90 e andando più verso Bristol che verso la sua Los Angeles. Nella composizione dei brani Chung si fa aiutare da musicisti capaci di catturare i panorami chiaroscurali e notturni e a renderli al meglio, come Chazwick Bradley Bundick aka Toro Y Moi, Julianna Barwick e Kazu Makino (Blonde Redhead) che ritorna a collaborare con Chung nella splendida ed eterea “My Soul Or Something” inserita in scaletta.
Nel 1983 due giovani DJ di origine afro-caraibica, Andrew Vowles e Grant Marshall, sotto i nomi rispettivamente di “Mushroom” e “Daddy G” danno vita a Bristol ad un sound system che gira la città improvvisando eventi che coinvolgono musicisti, mc’s, dj e artisti dalla formazione più varia, a cui verrà dato il nome di “The Wild Bunch”. Una sorta di collettivo aperto cui si aggiungeranno nomi importanti come la cantante Shara Nelson, Adrian “Tricky” Thaws, e il giovanissimo artista di strada Robert Del Naja, noto come “3D”. L’ultimo rimarrà insieme ai due fondatori quando il collettivo si stabilizzerà mutuando il nome in Massive Attack. Il resto è storia, l’esordio fulminante di Blue Lines, con i tre a creare un nuovo sound tra dub, elettronica, soul e hip-hop che verrà codificato solo successivamente in trip-hop.
Nel loro suono c’è tanto: melodie, brani, groove e splendide collaborazioni che prendono via via il nome di Horace Andy, Sinéad O’Connor, Elizabeth Fraser, Martina Topley-Bird e Tracey Thorn. Nel 1998 non contenti delle meraviglie già disseminate in Blue Lines (1991) e Protection (1994) il trio fa uscire un’altra pietra miliare come Mezzanine. Il disco presenta l’unione tra il dub) e una scura elettronica wave, dando vita a una serie di pezzi dove ai consueti climi ipnotici si aggiunge una componente sonora che prevede strumenti veri ad integrarsi perfettamente nelle spire elettroniche del gruppo, come nelle sferzate chitarristiche del brano che apre l’album: “Angel”. Uno dei brani centrali per capire il nuovo suono dei tre è senza dubbio Teardrop, brano ipnotico condotto da una Elizabeth Fraser (Cocteau Twins) in stato di grazia. Il disco sarà l’ultimo per Andrew “Mushroom” Vowles, non completamente soddisfatto da questa evoluzione sonora più scura che prevede strumentisti ad affiancarsi a loro nelle esibizioni dal vivo.
Siamo quasi arrivati alla fine di questo podcast, ed è arrivato il momento di celebrare un altro artista enorme. Ryuichi Sakamoto, che ci ha lasciati a 71 anni per l’aggravarsi di un male che lo aveva colpito anni fa. Il giapponese è stato senza dubbio un maestro, un pioniere nella contaminazione tra la musica etnica orientale e le sonorità elettroniche occidentali. Aveva iniziato la carriera musicale come tastierista nella Yellow Magic Orchestra per poi, negli anni ’80, iniziare una proficua carriera solista dopo lo scioglimento del trio giapponese. Affascinato dalle musiche tradizionali (non solo orientale, ma anche africane ed indiane), dai compositori classici e anche da alcuni gruppi kraut rock, Sakamoto è stato capace, grazie alla sua curiosità onnivora, di spaziare tra diversi generi musicali rimanendo sempre coerente artisticamente.
La sua fama internazionale arrivò nel 1983, quando Sakamoto recitò accanto a David Bowie nel film di guerra diretto da Nagisa Oshima, Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence), dove oltre ad interpretare il personaggio del Capitano Yonoi, compose anche la colonna sonora. La vera consacrazione arrivò però con un’altra colonna sonora, quella de L’Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, che nel 1987 gli valse l’Oscar assieme ai colleghi David Byrne e Cong Su. async è stato il suo penultimo album in studio, uscito nel 2017, a quattro anni dalla diagnosi del cancro alla faringe e dopo otto anni di silenzio. Nel disco il pioniere della fusione tra la musica etnica orientale e le sonorità elettroniche occidentali ha disegnato uno scenario meraviglioso di grande serenità, tra pianoforte, droni, archi e field recordings. Uno dei suoi album più evocativi e belli di sempre come dimostra la splendida “Life, Life” impreziosita dallo spoken word del suo amico David Sylvian.
Chiudiamo il podcast rimanendo in Inghilterra e andando ancora a rovistare nello scrigno segreto del post-rock britannico. Gli Hood vengono fondati a Wetherby, cittadina non distante da Leeds, dai due fratelli Richard e Chris Adams che cercano di mediare i movimenti che in quel momento andavano per la maggiore in Inghilterra (shoegaze e britpop) con l’indie rock statunitense. Dopo alcuni 7″ e tre lavori sulla lunga distanza abbastanza acerbi e confusi, la band trova finalmente la quadratura del cerchio collaborando con Matt Elliott (all’epoca con i Third Eye Foundation) e pubblicando Rustic Houses Forlorn Valleys.
E se già quest’album aveva rivelato l’alba di un mondo dimenticato, un orizzonte immaginario dove abbandonarsi ai sogni, il seguente The Cycle Of Days And Seasons dilata il suono esprimendo come il suo predecessore il meglio del post-rock Made in England. Le pause ed i silenzi riescono a vivisezionare l’anima, per i crescendo emozionali, i field recordings, i brevi giri chitarristici. Gli Hood hanno come paesaggio immaginario l’isolazionismo della campagna, con i rintocchi ovattati e la ricchezza di suoni che vanno a dipingere una serie di spettrali paesaggi rurali. “September Brings The Autumn Dawn” esprime perfettamente in musica l’estate che si stempera nell’autunno.
Un grazie speciale va, come sempre, a Franz Andreani per la sua passione, la gestione di questa banda di pazzi e per la splendida riorganizzazione del sito già attiva da qualche anno. A cambiare non è stata solo la versione grafica del sito, ma anche la “filosofia” della podradio, con le rubriche che vanno ad integrarsi nella programmazione regolare sotto l’hashtag #everydaypodcast. Sulla nostra pagina Facebook troverete quotidianamente ogni upload del sito e, ormai da tempo, è attivo anche lo splendido canale YouTube della Radio, una nuova formula senza interruzioni ne spot per ascoltare la vostra-nostra musica preferita. Iscrivetevi numerosi, vi aspettiamo!
Il prossimo episodio di Sounds & Grooves partirà con il tributo ad un vero gigante come Mark Stewart con i suoi The Pop Group, proseguirà con il trasformismo eclettico dei Rip Rig & Panic ed il punk al femminile degli indimenticabili X-Ray Spex. Si proseguirà con la riscoperta dall’oblio del proto-punk dei Death, con lo straordinario garage-folk dei Violent Femmes ed il rock psichedelico dei fratelloni Pontiak e dei Dommengang. Parleremo di Neil Michael Hagerty sperando in tempi migliori per lui e riassaporeremo lo shoegaze dei britannici Catherine Wheel. Andremo in quella splendida finestra tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80 con il power rock dei The Only Ones e il ricordo di un immenso Adrian Borland e dei suoi sottovalutatissimi The Sound. Il finale sarà appannaggio della suggestione della voce del compianto Shawn Smith e dei suoi Brad, il ritorno dopo sei anni di silenzio dei londinesi Daughter, e del cantautorato dolente e straordinario di Vic Chesnutt. Il tutto sarà, come sempre, sulle onde sonore della podradio più libera ed indipendente del pianeta: radiorock.to.
Intanto se volete potete sfruttare la parte riservata ai commenti qui sotto per darmi suggerimenti, criticare (perché no), o proporre nuove storie musicali. Mi farebbe estremamente piacere riuscire a coinvolgervi nella programmazione e nello sviluppo del mio sito web.
Se volete ascoltare o scaricare il podcast, potete farlo anche dal sito della PodRadio cliccando sulla barra qui sotto. Buon Ascolto
TRACKLIST
01. R.E.M.: Talk About The Passion da ‘Murmur’ (1983 – I.R.S. Records)
02. GIANT SAND: Can’t Find Love da ‘Swerve’ (1990 – Restless Records)
03. ALVARIUS B: Zion The Rocket Ship da ‘With A Beaker On The Burner And An Otter In The Oven’ (2017 – Abduction)
04. WHITE HILLS: Sugar Hill da ‘Stop Mute Defeat’ (2017 – Thrill Jockey)
05. MONKS OF DOOM: Turn It On Itself da ‘Meridian’ (1991 – Baited Breath Productions)
06. FIELD MUSIC: Lights Up da ‘Field Music (Measure)’ (2010 – Memphis Industries)
07. MEG BAIRD: Twelve Saints da ‘Furling’ (2023 – Thrill Jockey)
08. THIS IS THE KIT: Started Again da ‘Off Off On’ (2020 – Rough Trade)
09. EMMA TRICCA: Christodora House da ‘Aspirin Sun’ (2023 – Bella Union)
10. DANIEL BLUMBERG: Minus da ‘Minus’ (2018 – Mute)
11. NOSAJ THING: My Soul Or Something (feat. Kazu Makino) da ‘Continua’ (2022 – LuckyMe)
12. MASSIVE ATTACK: Teardrop (feat. Elizabeth Fraser) da ‘Mezzanine’ (1998 – Circa – Virgin)
13. RYUICHI SAKAMOTO: Life, Life (feat. David Sylvian) da ‘Async’ (2017 – Milan)
14. HOOD: September Brings The Autumn Dawn da ‘The Cycle Of Days And Seasons’ (1999 – Domino)