Le scene negli Stati Uniti risultano da sempre fortemente localizzate, come il grunge è stato un affare di Seattle e dintorni, così il primo punk fu newyorkese e californiano, e mentre la no-wave è stata specifica addirittura di alcuni quartieri della grande mela, così il post rock è nato e vissuto sull’asse Louisville/Chicago come evidenziato dai primi due podcast dedicati all’argomento.
Ma se il materiale del genere uscito al di fuori di queste due città è stato poco a livello quantitativo bisogna dire che invece è stato estremamente interessante a livello qualitativo. Tra gli antesignani del movimento post-rock ci fu una scena sviluppatasi quasi esclusivamente a Los Angeles e che fu ribattezzata “trance” da uno dei suoi protagonisti. Addirittura il chitarrista A Produce, è di lui che parliamo, aveva messo nero su bianco sulla sua fanzine, una serie di numi tutelari del movimento: da John Cage ai Wire, Dai Residents ai Velvet Underground, dai Pink Floyd al Miles Davis Elettrico, da Satie e Debussy ai Joy Division. La trance era scandita da rimi tribali, recisa da incursioni rumoristiche e dilatata come solo certa psichedelia eletta sa essere. I gruppi di questa scena sono quasi tutti rimasti nell’anonimato, tranne gli Psi-Com (per la presenza al suo interno di Perry Farrell, il futuro leader dei Jane’s Addiction), gli Shiva Burlesque (perché dalle loro ceneri sono poi nati i ben più noti Grant Lee Buffalo), e i Savage Republic di Bruce Licher (semplicemente perché erano i migliori del lotto).
La prima parte di questo podcast parte proprio da Bruce Licher e si conclude con una microstoria di una etichetta di culto e riferimento del genere come la Kranky che è si nata a Chicago, ma allo stesso tempo è estranea alla città in quanto i suoi gruppi provengono dal resto degli USA. Come già detto in precedenza, il rock che si affaccia al 2000 è una rock di album molto più che di gruppi, e gli stessi album ed artisti sono riconoscibili per l’appartenenza ad una etichetta particolare. Il “suono Kranky” è stato molto influente dal 1993 in poi sul formarsi del canone post-rock. C’è molto nei gruppi della Kranky dell’estetica post-rock codificata da Simon Reynolds e di cui abbiamo già parlato: il recupero del krautrock tedesco, del folk britannico, della psichedelia più chitarristica, dell’elettroacustica, e, più di tutto, dell’elettronica analogica e del minimalismo.
Ma andiamo per gradi, riavvolgiamo il nastro e partiamo dai Pell Mell. Attivi dal 1981 e rimasti pressoché sempre nell’anonimato nonostante uno dei suoi componenti, Steve Fisk, sia stato uno dei produttori più influenti del grunge anni ’90 (Soundgarden, Nirvana, Boss Hog, Screaming Trees). Autori di 4 album devoti al sound di Link Wray e Duane Eddy con una spruzzata di Morricone, esclusivamente strumentali, i Pell Mell erano già post rock ben 13 anni prima che il termine venisse inventato visto che la loro prima cassetta risale al 1981. Tutti dischi estremamente godibili e sostanzialmente intercambiabili. Per il podcast ho scelto l’unico album uscito per una major: ‘Interstate’ pubblicato dalla Geffen nel 1995: un lavoro esemplare di rock strumentale per chitarra, organo e batteria. Magari se avessero avuto una voce avrebbero avuto maggior appeal, vhi può dirlo. Abbiamo parlato in precedenza della scena trance, dalle ceneri dei Savage Republic, il chitarrista Bruce Licher forma gli Scenic insieme a James Brenner degli Shiva Burlesque (più noti successivamente dopo aver cambiato la ragione sociale diventando Grant Lee Buffalo). Il gruppo esordisce con il singolo “Kelso Run” (1994) per poi arrivare alla lunga durata con “Incident At Cima” (uscito per la sua Independent Project nel 1995). Il suono riprende in parte quello già presente nello splendido ‘Ceremonial’ dei Savage Republic, seppur con l’assenza della voce. La musica degli Scenic, è ambientale e cosmica, cinematografica e con una miscela perfetta di armonica, flauto, fisarmonica, mandolino e bouzouki riesce a trascinare la psichedelia in un lungo viaggio in un ambiente arido e desertico. A dimostrazione di questo, la lunga suite di “Carrying On To Cadiz” porta per 6 minuti i Pink Floyd di Syd Barrett in vacanza senza bussola nel deserto del Mojave. L’anno dopo uscì l’altrettanto splendido ‘Acquatica’ poi seguito dopo 6 anni di silenzio da ‘The Acid Gospel Experience’. Dal 2003 in poi Licher si concentrerà solamente sul suo lavoro di grafico, già evidente dall’inconfondibile e curatissimo artwork dei suoi prodotti, che farà scuola come numerose copertine di Jessamine e June of 44 stanno a testimoniare.
Anche gli Ui sono stati una sorta di precursori, visto che già nel 1991 avevano al loro interno un DJ, amavano il dub ed il jazz elettrico e manipolavano nastri. La loro formazione (capitanata da Sasha Frere-Jones) aveva in organico 2 bassisti un batterista ed un dj. Venivano da NYC e quando esordiscono su disco non c’è più traccia del DJ, ma la vena jazz e le derive dub e funk sono ben visibili soprattutto nello splendido ‘Lifelike’ uscito nel 1998 per la Southern. Un album elegante, dinamico e psichedelico come sapeva esserlo il Miles Davis della svolta elettrica.
La riscoperta grazie ad un ricco ventaglio di ristampe del folk blues metafisico di John Fahey ha davvero marchiato a fuoco gli anni ’90. Anche se, da misantropo quale è sempre stato, probabilmente l’etichetta di “padre del post-rock” non gli è mai piaciuta considerando la gran parte dei musicisti degli anni ’90 non alla sua altezza. In ogni caso Fahey dovrebbe ringraziare quei musicisti che lo hanno riportato in auge, e soprattutto i Bostoniani Cul De Sac con cui ha addirittura inciso un album dalla preparazione laboriosa e non affatto semplice proprio per il carattere del chitarrista. I Cul De Sac si propongono subito come un gruppo capace di recuperare il krautrock dei Can allungandolo con una buona dose di motivi orientaleggianti, digressioni acustiche e splendidi quanto difficili fraseggi di synth. La loro miscela diventa perfetta nel loro terzo lavoro intitolato “China Gate” e un anno dopo viene dato alle stampe proprio un album inciso insieme al loro idolo John Fahey intitolato “The Ephiphany of Glenn Jones”. Tra l’altro proprio il leader dei Bostoniani, il chitarrista Glenn Jones, nelle note di copertina va a svelare prima la storia delle prime lettere e dei primi incontri con Fahey, poi le frustrazioni dei primi momenti insieme in sala di incisione. In ogni caso il risultato è spettacolare, sia nei brani originali, sia nelle riletture come quella, splendida, di “Come On In My Kitchen” di Robert Johnson. Il loro blues oscuro, ancora più incupito dal synth, sferzato da tribali ricami percussivi sa diventare pura magia. Curioso pensare che anche il leader dei Cul De Sac ha sempre rifiutato di accostare il suo gruppo all’etichetta post rock. Non è il primo e non sarà l’ultimo.
Vengono invece dal Texas, che fu regione fondamentale per la psichedelia negli anni ’60, i Furry Things. Il loro esordio si chiama “The Big Saturday Illusion” e il suono è una psichedelia bisbigliata e completamente immersa in una densa nuvola di feedback che esalta le progressioni melodiche ed armoniche. Ci sono tanto i primi Velvet Underground che gli Spacemen 3. Tre anni dopo daranno alle stampe ‘Moments Away’ che sarà il loro ultimo disco e proporrà un suono completamente stravolto, senza feedback e con una accresciuta attenzione per il krautrock e per il suono degli Stereolab.
Piano piano il chitarrista e cantante Ken Gibson viene attratto dalle sirene elettroniche, tanto da trovare sfogo in un progetto chiamato Eight Frozen Modules. Nel brano che ho scelto per rappresentare il suo lavoro forse più riuscito, “The Confused Electrician”, è evidente l’amore per il drum’n’bass, ma troviamo anche suoni freddi quasi ambient e un pizzico di dub che svela la passione incondizionata di Gibson per l’etichetta On-U Sound.
Vengono per metà proprio da Austin e per metà da Tampa (Florida) i quattro Windsor For The Derby. I 4 chitarristi (Chris Goyer, Jason McNeely e Dan Matz) più il batterista Greg Anderson si incontrano a NYC per poi tornare nelle loro città. Una sorta di gruppo virtuale che assembla i dischi scambiandosi i nastri per posta e incontrandosi fisicamente solo per i concerti. Il loro album di esordio si intitola ‘Calm Hades Float’, esce nel 1996 e tenta una difficile mediazione tra i primi Tortoise e gli slanci degli Slint, tenendo bene a mente la lezione dei Sonic Youth. Sette brani strumentali, senza titolo, diversi tra loro, ma egualmente ripetitivi ed ipnotici tra accordi dimessi di chitarra e droni di organo. Magia che gli riuscirà in parte solo con ‘Difference and Repetition’ uscito nel 1999 per la Young God di Michael Gira, poi i nostri si trascineranno stancamente fino al più recente e mediocre ‘Against Love’ del 2010.
Gli A Minor Forest sono in tre, vengono da san Francisco e sotto le mentite spoglie di Creeping Death suonano cover dei Metallica. Il loro capolavoro è “Inindependence” del 1998, Erik Hoversten (chitarra e voce) John Benson (basso) e Andee Connors (batteria), riescono benissimo a nascondere il loro amore per i four horsemen dando vita ad un suono fatto di improvvise fughe strumentali, di pause studiate, di aperture melodiche improvvise. Più vicini a Slint/Shellac che ai Metallica.
I Matmos invece, pur facendo base a San Francisco, hanno curiosi collegamenti con la scena di Louisville. Uno dei due, Drew Daniel, faceva parte di un gruppo addirittura hip-hop insieme a Jeff Mueller e Jason Noble prima delle loro esperienze con Rodan e June of 44. Frammenti di suono trovati e ricomposti, suoni trovati in natura, frammenti suonati, tutto viene ricomposto come materia nuova in maniera spesso spiazzante e geniale. Loro sono il gruppo sicuramente più elettronico della scena post-rock. In “West” armeggiano da par loro sulla materia country & western con l’aiuto anche di David Pajo alla chitarra. Drew Daniel e Martin Schmidt continuano a fare grande musica fino al recentissimo ‘The Marriage Of True Minds’ uscito nel 2013 per la Thrill Jockey.
Dicevamo in apertura della Kranky, la grande influenza della label creata da Bruce Adams si vede anche dall’importanza delle etichette che poi sono sorte ad imitazione, come (in parte) la canadese Constellation. Un duo di Richmond composto da Carter Brown (tastiere) e Mark Nelson (chitarre, nastri e voce) chiamato Labradford inaugura nel 1993 la stagione Kranky con un album meraviglioso come ‘Prazision LP’. I loro droni elettronici sono lenti ma inesorabili, le chitarre spesso mandate in loop, i riferimenti ai Tangerine Dream molto chiari, con pochissimo rumorismo e molto ambient. Nel successivo ‘A Stable Reference’ c’è in aggiunta il basso di Robert Donne a rendere il sound più corposo e nel loro ‘Labradford’ del 1998 c’è anche una drum machine, il suono che si fa più solido e la voce che non si limita a bisbigliare. La loro trance si sublima in “Pico”, con una voce bisbigliata in sottofondo, una scura linea di basso, un malinconico organo e un flauto sintetizzato che evoca paesaggi malinconici o spettrali come quello della copertina. Mark Nelson abbandonerà il progetto Labradford nel 2000 proseguendo però fino ai giorni nostri la strada inaugurata nel 1998 sotto il nome di Pan•American.
I canadesi Godspseed You! Black Emperor non hanno solo il nome di originale, ma anche la strumentazione e la formazione allargata a ben 10 elementi. Originale è anche il nome del loro esordio, ‘f# a# oo’ (si legge F-sharp A-sharp Infinity) pubblicato in vinile dalla Constellation nel 1997 e un anno dopo in CD dalla stessa Kranky. Le due versioni sono state assemblate in maniera completamente diversa aumentando l’originalità di questo ensemble. Ci sono le colonne sonore di Morricone, il blues, i Popol Vuh, la trance, le lunghe suite mostrano momenti eterei alla Rachel’s ed improvvisi slanci hard rock. Insomma un lavoro da ascoltare con pazienza, e che sa sempre ripagare questa pazienza con stupore e meraviglia. Un album che sembra reggersi per miracolo, e che ogni volta riesce a non perdere questo magico e delicato equilibrio.
Per andare verso il prossimo podcast dedicato al Regno Unito, ecco una band di Bristol che incide per la Kranky. Loro si chiamano Amp ed il loro seducente esordio prodotto da Robert Hampson dei Main si chiama “Stenorette”.
Nel prossimo ed ultimo podcast ci sarà la storia del post-rock britannico, quello che ha ispirato Simon Reynolds a creare il termine “post-rock” sulle pagine di The Wire.
Stay tuned e…buon ascolto.
TRACKLIST
- Pell Mell: Nothing Lies Still Long da Interstate (Geffen – 1995)
- Scenic: Carrying On To Cadiz da Incident At Cima (Independent Project – 1995)
- Ui: Drive Until He Sleeps da Lifelike (Southern – 1998)
- Cul De Sac: The Colomber da China Gate (Flying Nun – 1996)
- John Fahey & Cul De Sac: The New Red Pony da The Ephiphany of Glenn Jones (Thirsty Ear – 1997)
- Furry Things: Introism da The Big Saturday Illusion (Trance Syndicate – 1995)
- Eight Frozen Modules: Premature Wig da The Confused Electrician (City Slang – 1998)
- Windsor For The Derby: Untitled #1 da Calm Hades Float (Trance Syndicate – 1996)
- A Minor Forest: Look At That Car, It’s Full Of Balloons da Inindependence (Thrill Jockey – 1998)
- Matmos: Last Delicious Cigarette da The West (Deluxe Records – 1999)
- Labradford: Pico da Labradford (Kranky / Blast First – 1996)
- Pan•American: Starts Friday da Pan•American (Kranky – 1997)
- Godspeed You! Black Emperor: Nervous, Sad, Poor… da F♯ A♯ ∞ (Constellation – 1997 / Kranky – 1998)
- Amp: Tomorrow da Stenorette (Kranky – 1998)